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 Archivi dei sentimenti 2014


Letture

Joan Anim Addo con Giovanna Covi

 Imoinda: mediazione culturale, riscrittura, traduzione

da Visioni in/sostenibili.  Genere e intercultura.

A cura di Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, Cuec, Cagliari: 201-226

Joan: Per la nostra discussione sull’empowernment propongo Imoinda[i],la mia riscrittura di Oroonok[ii]di Aphra Behn, che celebra insieme il nascere della Nazione Creola e il recupero della storia della donna nera creolizzata. Vorrei con questo mettere il luce alcuni significati per me importanti della mediazione culturale. In particolare, intendo considerare Imoinda in rapporto alla storiografia – il modo in cui si scrive la storia e la critica letteraria che ne deriva – delle donne africano-caraibiche anglofone.

Giovanna: Ti interrompo subito per presentare brevemente il tuo libretto d’opera Imoinda, or She Who Will Lose Her Name e la lettura che l’ha provocata: Oroonoko or the Royal Slave di Aphra Behn, scrittrice inglese del Seicento.

Protagonista del romanzo di Behn del 1688 è il Principe Oroonoko, un valoroso guerriero africano innamorato di Imoinda, costretta invece dalla legge dello stato ad entrare nel numero delle mogli del re; gli innamorati sfidano la legge, vengono scoperti e venduti ai commercianti europei di schiavi, e deportati nelle piantagioni del Nuovo Mondo. Qui il Principe oppone la propria morte eroica ad ogni ostacolo che impedisca il congiungimento con Imoinda; alla fine, incapace di conquistare la libertà, uccide l’amata e il figlio che questa porta in grembo, prima di darsi la morte dopo essere stato smembrato dagli schiavisti in una scena che potremmo chiamare una passione e morte con resurrezione.

Protagonista del libretto di Anim Addo del 2000 è invece la Principessa africana Imoinda insieme alla sua serva Esteizme. Innamorata del Principe Oko, Imoinda rifiuta di sottostare alla legge patriarcale del Re, il padre di Oko, che la vuole ceduta in moglie al Capo della tribù vincitrice di una recente battaglia; di conseguenza sarà venduta, con Esteizme e Oko, ai commercianti di schiavi e deportata nel Nuovo Mondo. In schiavitù Imoinda viene separata da Oko e subisce il destino di molte schiave nel Nuovo Mondo: lo stupro da parte del padrone. Grazie all’aiuto di Esteizme e delle altre schiave, Imoinda troverà la forza di continuare a vivere e anche di mettere al mondo il frutto dello stupro: una figlia nata per non dimenticare, mentre Oko, incapace di sopportare le catene, si ribella, viene torturato e umiliato e infine si dà la morte. La figlia di Imoinda nasce per non lasciare nell’ombra lo scontro tra Europa, Africa e America da cui è nato il Nuovo Mondo, per rivisitarne la storia multi-razziale con un atto di “rimemorizzazione”[iii], capace di farci udire, insieme al grido eroico degli schiavi che hanno guidato le rivolte, quello coraggioso delle schiave che hanno partorito figli sui cui corpi sarebbe per sempre rimasta inscritta la tragedia della schiavitù. Pertanto questa Imoinda afro-caraibica, a differenza di quella europea, vivrà per dar vita a una bambina concepita dallo stupro del continente africano da parte di quello europeo, nel luogo in cui l’Europa ha cercato di annientare un terzo continente, quello americano.

Oroonoko e Imoinda raccontano la stessa Storia, quella della schiavitù nelle piantagioni del Nuovo Mondo, ma sono storie molto diverse: l’una è storia tragica di un eroe virile che trova una glorificazione individuale solo a livello metafisico, l’altra è la storia della tragedia di una intera collettività trionfalmente salvata dalle proprie donne capaci di darsi il coraggio per agire in modo materialista e politico sulla realtà.

Joan: Comincio dalla premessa che la cultura caraibica è una cultura creolizzata e qui va situato il primo problema, perché la cultura ibrida deriva sia dalle culture imperiali che da quelle denigrate dalla sua difficile storia di schiavitù coloniale. Importante per la nuova cultura è quanto il teorico della creolité Édouard Glissant ha chiamato “presenza invisibile.[iv]

Ho voluto provare a mostrare questa “presenza invisibile” in Imoinda, testo scritto in tre atti: il primo si svolge in Guinea, la “vecchia,” “mitica” Guinea invocata da un coro di voci; il secondo, breve ma traumatico, è ambientato in alto mare; il terzo sul suolo caraibico. Nel terzo atto ho collocato questo incontro tra due uomini:

DRIVER:

Every night you hangin round.

This night the whip’ll find you

before moonlight catch your tail afire

or else massa’s musket and powder

leave such a hole no hand can patch.

OKO:

I do not fear implements of war.

I am . . .  I was.

DRIVER:

Yes, you was! I know. I met you before.

OKO:

We met before? Explain yourself.

DRIVER: (Laughs)

I mean times change. Look we now!

You could no guess under Guinea’s sun

how times would change us.

OKO:

By the sacred memory of Guinea . . .

DRIVER:

Guinea is only dream. Gone. Forgotten.

Here I stay a chameleon. Different skin.

OKO:

A dog does not change its skin.[v]

Si percepisce la “presenza invisibile” di Oko quando dice, “Io sono ... ero” e anche del Conducente che risponde “Sì, tu eri! Lo so. Ti conosco” e aggiunge: “Io qui sono come un camaleonte. Ho la pelle diversa.” A proposito dell’esperienza caraibica Kamau Brathwaite, anch’egli importante teorico, storico e poeta, afferma: “unity is submarine.[vi]” È francamente un’affermazione sconcertante che vuole mettere in evidenza la complessità dell’esperienza caraibica. Ma vorrei suggerire che il concetto “l’unità è sottomarina” si coglie bene nello scontro tra i due uomini. Tutto ciò che li unisce viene profondamente sommerso. Pensate ad esempio al dipinto di Didone e Lea[vii], a quanto rimane sommersa, nascosta l’unità tra le due donne a chi non sa che sono cugine.

Al tempo stesso il processo di creolizzazione, che Glissant associa al caos e al disordine, ha funzionato bene e in modo drammaticamente radicale portando le due vite di nobile e servo a unirsi per poi invertirne drammaticamente i ruoli. Per molti motivi che qui non posso esplorare a fondo, Oko morirà perché resiste al processo di creolizzazione, mentre il Conducente che abbraccia in pieno questo processo sopravvive. Oko invoca la “sacra memoria della vecchia Guinea”, il Conducente la rimuove, anzi la relega al mondo dei sogni. Dunque, l’uno sopravvive mentre l’altro va incontro alla morte.

Il viaggio che porta alla morte e resurrezione ha particolare risonanza nella cultura caraibica creolizzata, specialmente il viaggio per mare. Storicamente facciamo riferimento a questo viaggio come al middle passage[viii]. Tuttavia, mentre i poeti cercano di riformulare il senso di quest’esperienza fino ad ora fraintesa – esperienza che la gente della diaspora africana è stata costretta a dimenticare, con la conseguente caduta nella “presenza invisibile” sopra menzionata – numerose metafore assumono importanza sempre più grande. In Imoinda io focalizzo l’attenzione sulla “nightmare canoe”[ix]: ho cercato di ancorarla nell’esperienza vissuta dalla gente che popola il mondo della storia di Imoinda e anche di offrire con essa quel senso di paralisi che assale chi cerca di comprendere un fenomeno di violenza estrema, di caos, disordine e trauma che vanno ben oltre il normale vissuto. Quando Imoinda si trova sulla “canoa dell’incubo,” la nave piena di schiavi, reagisce accusando se stessa:

IMOINDA:

To be punished like this, I have done wrong.

ESTEIZME

Eat! The gods of our ancestors will tell.

IMOINDA:

Taboo. It is the taboo I have broken.

I must die. Look how I have changed the world!

 

I have caused unspeakable demons

with so many instruments of torture

to rise and escape from the bush of ghosts

ESTEIZME

Imoinda, such power is not yours.

Trust me, one who has watched over you.

CHORUS:

Nightmare canoe! Canoe! Hold on![x]

È convinta di avere “fatto del male”, che quanto sta subendo sia conseguenza della sua trasgressione, “il tabù che [ha] infranto”, crede di avere “evocato demoni inenarrabili / con strumenti di tortura tali / da farli sorgere e uscire dai nidi dei fantasmi”. È colpa sua e deve scontare la pena. Eppure questa è la circostanza che rappresenta la sua entrata nel mondo / cultura creolizzati; questo è il momento che rappresenta la nostra entrata nella cultura creola, che pur vecchia di secoli e pregnante di significati solo ora comincia a venire analizzata dalla gente della dispora africana, in particolare dalla donne. Brathwaite offre indicazioni importanti quando ipotizza che nel contesto della “dehumanizing institution of slavery ... the friction created ... was cruel but it was also creative”[xi]. Parte di questa “frizione creativa” coinvolse anche l’imposizione della cultura imperiale e la negazione di quelle che possiamo chiamare culture native o vernacolari; a ciò si aggiungano gli effetti del patriarcato tesi a garantire il silenzio di razza e di genere.

 Giovanna:  Pensi che si possa associare il concetto di “frizione creativa” a quello di “singolarità” articolato da Elena Bougleux per il nostro laboratorio?

Joan:: Assolutamente. Mentre centrale a queste considerazioni rimane il fatto della schiavitù, anche il silenzio specificatamente imposto alle donne afro-caraibiche ha un significato fondamentale. Mi riferisco con questo alla necessità di sottolineare, nel contesto della “frizione creativa,” la mancanza di pubblicazioni di donne afro-caraibiche e l’assenza di rappresentazioni di donne afro-caraibiche nei testi britannici, specie in quelli anteriori al diciannovesimo secolo, e l’impatto di queste nuove voci e figurazioni sul mondo creolizzato alla ricerca di sé.

Voglio rimarcare la soppressione della parola della donna afro-caraibica che la mia riscrittura tenta in parte di contrastare o mediare. Due elementi chiave possono gettare luce sulla repressione storica cui faccio riferimento: patronato e posizionamento. Le prime pubblicazioni di donne afro-caraibiche del diciannovesimo secolo[xii] illustrano davvero bene in che misura il patronato giusto e il  posizionamento giusto permettono perlomeno di sbeccare, se non proprio di infrangere il silenzio editoriale.

E allora possiamo dire che in certa misura la “frizione” si è tradotta nella tradizione del “speaking for”[xiii]. Al tempo stesso, l’adozione di pratiche femministe trasformatrici si è rivelata di vitale importanza nel processo teso a sovvertire questa tradizione e rivendicare una propria voce letteraria. Ecco, questo è uno dei significati che attribuisco alla ri-scrittura. Ed ecco anche perché è tanto importante che Imoinda invece di morire dia la vita:

ESTEIZME:

A girl! And hope for new life again.

IMOINDA:

A girl? Will all you she gods not hear me?

A girl born subject to such misery!

WOMAN:

Yet it is life given; for one taken.

This land may still claim the final victory.[xiv]

Inoltre la sua progenie non è il maschio desiderato dal suo amante, ma una bambina non voluta, forse “speranza di un’altra vita nuova” insiste la sua compagna Esteizme, ma anche colei che è generata dalla violenza. Il “nascere” di Imoinda è anche figurazione della “frizione creativa” della nuova Nazione, e delle circostanze della sua nascita attraverso un’ibridità dissonante – non l’ibridità che si può scegliere cui fa riferimento Homi Bhabha – e una violenza immane.

Eppure, come ci ricorda Derek Walcott, la cultura caraibica che possiamo conoscere e che abbiamo fino a qui lasciato esprimersi è nell’infanzia, ha soltanto un paio di secoli[xv]. I teorici della creolizzazione ammettono la mancanza di consenso nei Caraibi rispetto alle norme culturali, quindi sappiamo che il consenso popolare si scontra con l’insegnamento coloniale rispetto a norme e usanze culturali condivise. Per questo il testo creolo come forma di mediazione culturale esiste per il momento solo a livello di “lavoro di scavo letterario” come direbbe Toni Morrison. Un testo come Imoinda si basa infatti su frammenti letterari. Altro non ci resta da fare, vista la nostra storia. I nostri sono testi che cercano di mirare a una certa “unità culturale” sondando la “presenza invisibile” delle culture assenti e denigrate. E persino all’interno di questa ricerca, le voci di donne, le voci delle donne nere, rischiano la soppressione.

Invito a leggere la mia Imoinda in rapporto alla “frizione creativa” di cui ho parlato: essa ha costituito la prassi trasformativa femminista identificata da Carole Boyce Davies come fondamentale per la comprensione delle scrittrici nere[xvi].  È un processo che io traduco in termini di mediazione culturale. È per questo che Imoinda si sforza di dare voce non solo alla madre creolizzata della regione caraibica intesa in quanto Nazione, inserendo pertanto in maniera visibile le donne nere nella storia della regione, ma anche come tentativo di affermare una storia che i primi scrittori maschi avevano cercato di negare, concependo i Caraibi come spazio dell’assenza della storia, le isole come officine non come spazi culturali.

Giovanna: Sottolineo come qui il tuo intervento venga a congiungersi con le indicazione offerteci da Liana Borghi su una globalizzazione che è glocalizzazione; quanto dici su creolizzazione, intesa come lingua della discontinuità, mi sembra in sintonia con lo sforzo di coniugare da una parte l’identificazione con il globale e dall’altra la focalizzazione sulle differenziazioni locali.

Joan: Sicuramente, infatti altrove ho scritto:  

she weaves a tale so fine

so sad

so beautiful in the telling

of a people

with a story so terrible

it could only be known

through story;

so painful,

only a song could capture it

without bruising those who heard [xvii]

Questa è la storia di Imoinda e dei Caraibi [xviii]. È anche la storia del processo attraversato da una donna afro-caraibica nel ventesimo secolo per iscriversi nel (chiuso) paesaggio letterario britannico ed entrare a far parte di una “catena internazionale”[xix]. Mi fa piacere che un anello di questa catena internazionale, quello delle preoccupazioni femministe condivise, abbia portato Imoinda a venire tradotta e pubblicata in Italia; in tal modo questo testo può crescere, godere di nuove possibilità, trovare altre affiliazioni.

Giovanna: E io non so dirti quanto abbia fatto piacere a Chiara e me viaggiare dentro al tuo testo e cercare di portarcene un po’ a casa con la nostra traduzione: è stata anche la nostra una mediazione culturale condotta con la massima attenzione e piena di interrogativi irrisolti rispetto a come negoziare la creolizzazione che di fatto si propone alla nostra lingua e cultura con la traduzione di Imoinda. Quanto portare il più possibile intatto al di qua dell’oceano, quanto invece trasformare per riuscire a comunicare meglio... le nostre due culture sono molto distanti anche se condividono la terribile storia della colonizzazione del Nuovo Mondo. La tua storia fa tutt’altro che soddisfare il bisogno diffuso di storie semplificate tanto che rifiuta di ridurre persino la storia della schiavitù a una storia in bianco e nero – la parola “nero” entra nella tua scrittura e nel tuo pensiero con tutta la complessità storica che da sempre la caratterizza e si muove libera dai vincoli razzisti che la vogliono invece relegata al monolite dell’alterità. Solo la nominazione di parole come “razza” e “nero” in lingua italiana, tuttavia, ci dà il senso di quanto lavoro di mediazione culturale vada sotteso con questi termini che tu usi nella lingua inglese in senso precisamente connotato dal contesto della colonizzazione del Nuovo Mondo e che possono venire assunti a valore metafisico in italiano; molto ancora si deve fare  per prendere coscienza politica, non semplicemente filologica, di parole comuni quali quelle che, per esempio, hai usato poco sopra tu, “denigrare” e “vernacolare” per coglierne il legame con il razzismo contro i “neri” e il disprezzo per gli schiavi. Ma tralascio qui le difficoltà più ampie legate all’uso del concetto di razza e mi soffermo invece su  due esempi più specifici legati alla traduzione di Imoinda: il titolo del libretto e la nominazione dei ruoli legati all’istituzione della schiavitù.

Nel primo caso la scelta di tradurre Imoinda, or She Who Will Lose Her Name con Imoinda, colei che perderà il nome sembra dettata puramente da regole stilistiche della lingua italiana che suggeriscono di eliminare “or” e “own” perché ridondanti. Eppure la concentrazione dell’italiano produce l’effetto di richiamare l’attenzione su uno degli aspetti più importanti di questa storia: l’articolazione della complessità. Nonostante il mondo di Imoinda sia tradizionalmente il mondo del bianco contro il nero degli schiavi nelle Americhe, la realtà che riflette è piuttosto un fitto intreccio di varie diversità e il titolo cattura per prima quella di classe, non quella di razza: Imoinda infatti è anche la storia della principessa che perde il proprio nome nel diventare schiava e della sua Serva che invece lo acquista, diventando in schiavitù la sua compagna Esteizme. La presa di coscienza e di coraggio della protagonista passano sempre attraverso il dialogo con Esteizme il cui ruolo è di ascoltare per mostrare a Imoinda la via da intraprendere. Il testo rovescia già in apertura, a Palazzo in Africa, la gerarchia di classe e affida proprio alla Serva il compito di veicolare una conoscenza superiore a quella della Principessa quando le dice: “My burden is seeing far;  / Watching over you. /  My burden is seeing far;  / Watching over you. / So that you can grow, I wait; / Watching over you”[xx] ; successivamente, a bordo della nave schiavista, con la stessa sicurezza ma con tono e registro diversi, e con la forza del nome che il testo ora le conferisce, sarà sempre lei a spiegare alla padrona che ora sono sorelle: “IMOINDA: are these? [...] ESTEIZME: Eat! Our new family awaits you. / Shipmates all: our family in sorrow” (Imoinda... 86-7)[xxi] ; e alla fine, nella piantagione, sarà ancora Esteizme a portare Imoinda a scegliere la vita, nonostante tutto:

 ESTEIZME:

You have the pikin to think of.

IMOINDA:

Death is better. [...]

 IMOINDA:

I have seen beautiful humming birds      (Music  –  “Moon Witness”)

sipping the life sustaining nectar.

Just so once, I took all I needed.

Now no more. The birds are free. Not me.        (panting)

 

Dun coloured cows with baleful eyes

stand still in the storm.

They are bred as it suits their owners.

Not me; I would rather die.                   (her panting quickens)

What is this pain that gnaws at my insides?

Gracious death, I embrace you!

Esteizme, take my hand.

I feel a fierce burning deep inside me.

ESTEIZME

Take my hand. Tighter. It is the pikin.[xxii]

Mentre Imoinda partorisce, la voce di Esteizme si intreccia con quella di una Donna prima al singolare e di Donne successivamente soggetto plurale, a sottolineare l’aspetto femminile di questa comunità che sceglie la vita:

 WOMAN:

In order to cross the river         (MUSIC  –  “Her Back A Bridge”)

We first must build the bridge.

CHORUS:

And bridges come in different size

shape and look but are bridges for all that.

WOMAN:

Your back, my child is a bridge.

Push! Let it come. Let it breathe.

IMOINDA:

No! Unless I know it is a son

to wreak rough vengeance upon a father.

Besides, I’ll have none but a warrior.

WOMAN:

Your back, my child is a bridge.

CHORUS:

And bridges come in different size

shape and look but are bridges for all that.

WOMAN:

Your back, my child is a bridge.

Push! Let it come. Let it breathe.

IMOINDA:

No! No! Not in this cursed  place!

No! I say again.  Not in this cursed  place!

Not yet! Not ever! Nooooooooooo!

WOMAN:

Your back, my child is a bridge.            (MUSIC  –  “Sleeping Volcanoes”)

Push! Let it come. Let it breathe.          (Women circle)

WOMEN:

Push! Let it come. Let it breathe

We sleeping volcanoes; we women.

CHORUS:

We slumbering volcanoes,

seemingly so unmoved and unmoving.

WOMEN:

See how serene we seem at times to be;

beautiful even, some moments.

Push! Let it come. Let it breathe!

IMOINDA:

No! Cover me in coconut branches

when I die.

WOMEN:

We sleeping volcanoes; we women

CHORUS:

Sleeping volcanoes; our women, our men

and when we erupt, rumble

spit stones of words; pour fires of rage

then you know we are not stone.

WOMEN:

Then you may know we sleeping volcanoes

are tender, thoughtful, suffering

but not endlessly.

IMOINDA:

Bury me beneath. Ahhh!          (Screams. A baby’s cry is heard)

ESTEIZME:

No! Not yet death! Listen! A baby’s cry!

WOMAN:

New life! Where there is new life there is hope.

ESTEIZME:

A girl! And hope for new life again.

IMOINDA:

A girl? Will all you she gods not hear me?

A girl born subject to such misery!

WOMAN:

Yet it is life given; for one taken.

This land may still claim the final victory.

IMOINDA:

Though this be only life of sorts,

In this new place, I have chosen life.     (They pass the baby round)

(MUSIC  –  “Tasted Sorrow” theme)

CHORUS:

River Volta:

Listen!

River Nile:

Listen!

River Gambia:

Listen!

River Niger:

Listen!

River Congo:

Listen!

The waters of five rivers:

Listen!

                        Witness a first rite completed.[xxiii]

Imoinda è una storia che esplora il significato del potere, sia inteso come dominio che come empowernment, perciò smonta radicalmente la logica razzista del bianco e del nero che ha sostenuto l’istituzione della schiavitù e ci consegna altre parole per ricordarla e comprenderla. Già in Africa, il potere del Re è diverso da quello del Capo, quello di Oko diverso da quello di Imoinda e poi nella piantagione a dividere l’umanità in due non è il colore della pelle ma il fatto che c’è chi la frusta la dà (il Conducente) e chi la riceve (Oko). Joan Anim Addo non poteva tollerare il silenzio che Aphra Behn aveva imposto a Imoinda, consapevole che la frusta non ha potere assoluto, infatti non può cancellare la memoria, e quindi si è coniugata con Imoinda per far modo che il suo raccontare divenisse un raccontar(si), come bene vediamo nella prima stanza della sua poesia My Imoinda:

Looking into her eyes

 my soul takes fire;

soars to reach the sky.

Don’t catch me;

let me rise until I fall again.

Don’t catch me.[xxiv]

Rompere il silenzio diviene quindi chiaramente anche un atto cognitivo, come si legge nella conclusione a Creation Story:

 

Now in a space she claims

that feels sometimes

like home

a woman poet of the new tongue

at evening time

sings alone

And whilst others not too distant

hearing notes of fluid pain

pause puzzling

she gives voice

that soars on high calling

won’t you, won’t you

trace the scars of my knowledge

with your fingers

to begin our knowing?[xxv]

Si tratta perciò di una atto di empowernment, capace di fornire forza per il presente e il futuro, non semplicemente di revisionismo storiografico.  Questi versi possono essere letti con in mente l’incipit di Creation Story: “In that beginning there was silence”[xxvi], un silenzio interrotto dalla voce della poeta che canta da sola. Ma sono i versi di Storyteller a teorizzare l’obbligata coniugazione di storia, gender, narrazione e musica per arrivare a questa conoscenza  e consapevolezza che sono fonte di empowernment:

she weaves a tale so fine

so sad

so beautiful in the telling

of a people

with a story so terrible

it could only be known

through story; / so painful,

only a song could capture it

without bruising those who heard.[xxvii]

Confrontarci a nostra volta, seguendo l’esempio di Anim-Addo, con Imoinda e con la storia della schiavitù africana che è anche e senza contraddizione la nostra storia, ci permette di abitare un luogo nel quale le nostre definizioni di conoscenza, identità e realtà vengono messe in discussione dal fatto evidente che il dato materiale risulta prendere forma con il costruirsi di una rete di narrazioni.

Tradurre Imoinda in italiano, come ho fatto insieme a Chiara Pedrotti è stato un modo per accettare tale confronto. Ha significato non solo abitare lo spazio che separa questo testo da Oroonoko, ma anche assumerne il posizionamento: gender-izzare e creolizzare la realtà della schiavitù africana equivale a porsi in un’ottica trasversale, relativa e multipla, capace di fare a brandelli il binarismo razzista e patriarcale che l’ha resa possibile. È stata una ricerca di parole legate a questa storia che la lingua italiana non offre già pronte – come è il caso dei ruoli assegnati a chi controlla il potere all’interno dell’istituzione schiavista  della piantagione: per esempio, non è stato semplice scegliere come nominare il driver che conduce il carro di schiavi sul luogo di lavoro, di colui che detiene il potere della frusta, e che tuttavia essendo africano è a sua volta soggetto al potere dell’overseer, il sorvegliante bianco che nelle piantagioni dei Caraibi, a differenza di quelle degli Stati Uniti, faceva le veci del padrone (Massa), visto che quest’ultimo preferiva mantenere la residenza in Inghilterra. Siamo consapevoli che “Conducente,” “Sorvegliante” e “Padrone” non sono scelte felici, soprattutto stilisticamente, ma abbiamo anche voluto fare in modo che l’italiano strida piegato dalla “frizione creativa” cui Imoinda lo costringe. È stata pertanto la ricerca di portare un’esperienza ‘altra’ dentro la nostra lingua. Non ho potuto fare a meno di pensare a Donna Haraway[xxviii] che mi ha insegnato a considerare le figurazioni linguistiche come immagini performate, e allora è con sguardo queer e creolizzato[xxix], di sghimbescio, senza pretesa né di neutralità né di ricerca della verità, che con Chiara abbiamo tradotto Imoinda, senza dimenticare Oroonoko e vogliose di imparare a riscrivere una storia che “senza contraddizione” è anche nostra. Altro non si può comunque fare traducendo: è un lavoro ai margini, che attraversa il testo senza potervisi fermare, lo coglie di striscio in maniera assolutamente temporanea, e nel suo errare si pone sempre a comunque dalla parte del torto – una traduzione non è mai “quella giusta”, per quanto bella sia. Tradurre è un po’ come navigare: compaiono nodi, links, percorsi, il viaggio assorbe specifiche realtà che hanno fondamento materiale e riflette l’espressione di un desiderio infinito. Tradurre significa entrare in una trattativa continua tra lingue e tra culture nel tentativo di occupare almeno per un attimo quello “spazio intimo” che si nasconde tra le pieghe della retorica[xxx] e consente di tradurre non soltanto parole ma anche culture, cercando di evitare, da un lato, di ridurre realtà a noi lontane e poco note ad un esotica e monolitica alterità, e dall’altro, di diffondere acriticamente nella lingua italiana contemporanea termini che appartengono a una realtà storica razzista e colonialista ben specifica nella lingua inglese.

In Imoinda, non dimentichiamolo, la tragedia della schiavitù viene cantata in musica, celebrata con una danza che ci ricorda: nonostante tutto, gli schiavi sono sopravvissuti!  Questa storia che trascende la pura mimesi esprime anche il desiderio, il quale, concepito come forma di conoscenza, articola il rapporto tra storia e identità. Quindi nemmeno nella realtà incatenata della piantagione gli esseri umani sono semplicisticamente divisi tra “bianchi” e “neri”: invece la linea di separazione viene data – in modo performato e non essenzialista – dalla frusta: da una parte chi la usa, dall’altra chi la subisce. E il testo ripete che quello della frusta è un potere limitato: ciò che si ricorda non può venire cancellato dalle frustate. Imoinda celebra la memoria contro la morte, che troppo spesso la nostra cultura contrappone al desiderio di immortalità. Imoinda non insegue questo desiderio, ma fa ricorso a una narrazione capace di mescolare mito e fatto, capace di non dimenticare. Per questo troverà la forza, con l’aiuto di tutte le altre donne, di dare alla luce sua figlia – una figlia destinata a non dimenticare,  perché con lei i popoli africani deportati nel Nuovo Mondo e qui trasformati in “razza nera” cominceranno a farsi etnia, a crearsi una propria cultura che dalla schiavitù non può prescindere ma da essa e dal razzismo che la sottende si saprà liberare.

Come dice Joan:  bisogna far festa, perché nonostante tutto ce l’abbiamo fatta e ci siamo ancora. Ecco perché il romanzo del 1688, nel 2000 è diventato opera musicale: una notizia così bella non si poteva che cantare e danzare appropriandosi in modo carnevalesco di uno dei codici espressivi classici della cultura europea, l’opera musicale italiana, naturalmente sottoposta a un  processo di creolizzazione che vede il “bel canto” alternarsi e fondersi con i tamburi.  Musicare questa storia non è una scelta: il perché lo leggiamo ripetutamente nel libretto che sottolinea in più modi come solo la musica possa viaggiare libera e solo i tamburi possano dare voce alle lingue tagliate degli schiavi.

 Joan: Nella catena di questo libretto d’opera vanno tenuti ben presenti gli anelli musicali. La “poetica della relazione” sviluppata da Glissant coniuga teoria della storia caraibica e poetica caraibica ponendo al proprio centro la comprensione della natura dei collegamenti noi autori afro-caraibici ci troviamo ad affrontare devono negoziare tra questi nodi di collegamento. Perciò, la lingua creola e la lingua inglese segnano il mio viaggio dentro l’inglese del testo di Behn. Sono consapevole della conoscenza condivisa che il viaggio di Imoinda rappresenta: la immagino parlare la lingua ga in Africa e poi cercare di capire olandese, spagnolo, inglese e francese sulla nave schiavista: la sua conoscenza condivisa deve essere una parlata multilingue e tutta l’esperienza della schiavitù è esperienza di questa condivisione; è storia di Aphra Behn quanto mia e, come evidenzia Brathwaite, il processo di creolizzazione è a doppio senso.[xxxi] Ma la differenza sta nel fatto che nel 1688 Behn non poteva immaginare che noi saremmo sopravvissuti. Lei non lo sa che Imoinda è sopravvissuta, che non è stata zitta e che sua figlia ha generato a sua volta discendenti che stanno ri-scrivendo questa storia condivisa. Imoinda con la maternità accetta l’Altro che sta dentro di lei, accetta il proprio io creolizzato attraverso lo stupro e quindi rappresenta per me una conoscenza catapultata in uno spazio nel quale, pur insicura di sé, si trova posizionata all’interno di una rete di madri che le offrono sostegno per sopravvivere in quel nuovo mondo di terrore che fu il mondo creolizzato. Il testo scritto è creolizzato e parla al plurale per tradizioni diverse; forse dovremmo chiederci fino a che punto questi siano testi oppure forme di mediazione. Le condizioni che governano la produzione letteraria delle donne afro-caraibiche, anch’esse parte di una relazione prodotta dalla schiavitù, offrono ancora un accesso precario ai mezzi di pubblicazione, tant’è vero che una scrittrice inglese / creola che vive in Gran Bretagna trova più facile accedere alla pubblicazione in Italia, specie se il suo testo si propone di gender-izzare oltre che di creolizzare l’originale.  Imoinda è per me una ri-scrittura tesa ad inscrivere l’identità caraibica, creolizzata, gender-izzata nella storia e questo ritengo sia un atto di mediazione culturale che si compie all’insegna della complessità.

Bibliografia

 Anim Addo, Joan., Haunted by History, Mango, London 1998.

Anim Addo, Joan, a cura di, Framing the Word, Whiting and Birch, London 1996.

Anim Addo, Joan, a cura di, Centre of Remembrance, Mango Publishing, London 2002.

Alexander,  Ziggi Alexander & Audrey  Dewjee, a cura di, The Wonderful Adventures of Mrs Seacole in Many Lands [1857],  Falling Wall Press, Bristol 1984.

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 [i]Joan Anim Addo, Imoinda, or She Who Will Lose Her Name / Imoinda, colei che perderà il nome, tr. it. di Giovanna Covi e Chiara Pedrotti, nell’Appendice con testo originale a Voci Femminili Caraibiche e Interculturalità.

 [ii]Per l’ottima traduzione, il ricco apparato storico-biografico e la stimolante presentazione critica del testo, rimando all’edizione bilingue: Aphra Behn, Oroonoko or the Royal Slave / Oroonoko schiavo di sangue reale, a cura e con traduzione di Maria Antonietta Saracino.

 [iii] Toni Morrison elabora le implicazioni teoriche del termine “rimemorizzazione” in Playing in the Dark: Whiteness and the Literary Imagination; tr. it. Giochi al buio.

 [iv] Si veda Édouard Glissant, Caribbean Discourse, pp. 66-67.

 

 [v] CONDUCENTE:

Tutte le sere ti fermi qui.

Questa sera ti fermerà la frusta

prima che il chiaro di luna si posi sulla tua coda in fiamme

o che il moschetto e la polvere del padrone

vi lascino un buco così grande che neanche una mano lo può tappare.

OKO:

Non temo le macchine da guerra;

Io sono... ero.

CONDUCENTE:

Sì, tu eri! Lo so. Ti conosco.

OKO:

Ci conosciamo? Spiega.

CONDUCENTE: (Ride)

Come cambia il tempo. Guardaci qui!

Non si sarebbe immaginato sotto il sole della Guinea

quanto ci avrebbe cambiato il tempo.

OKO:

In nome della sacra memoria della Guinea...