Joan Anim Addo con Giovanna Covi
Imoinda:
mediazione culturale, riscrittura, traduzione
da Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura.
A cura di Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, Cuec,
Cagliari: 201-226
Joan:
Per la nostra discussione sull’empowernment propongo
Imoinda[i],la mia riscrittura di
Oroonok[ii]di Aphra Behn, che celebra insieme il nascere della Nazione
Creola e il recupero della storia della donna nera
creolizzata. Vorrei con questo mettere il luce alcuni
significati per me importanti della mediazione culturale. In
particolare, intendo considerare Imoinda in rapporto
alla storiografia – il modo in cui si scrive la storia e la
critica letteraria che ne deriva – delle donne
africano-caraibiche anglofone.
Giovanna:
Ti interrompo subito per presentare brevemente il tuo
libretto d’opera Imoinda, or She Who Will Lose Her Name
e la lettura che l’ha provocata: Oroonoko or the
Royal Slave di Aphra Behn, scrittrice inglese del
Seicento.
Protagonista del romanzo di Behn del 1688 è il Principe
Oroonoko, un valoroso guerriero africano innamorato di
Imoinda, costretta invece dalla legge dello stato ad entrare
nel numero delle mogli del re; gli innamorati sfidano la
legge, vengono scoperti e venduti ai commercianti europei di
schiavi, e deportati nelle piantagioni del Nuovo Mondo. Qui
il Principe oppone la propria morte eroica ad ogni ostacolo
che impedisca il congiungimento con Imoinda; alla fine,
incapace di conquistare la libertà, uccide l’amata e il
figlio che questa porta in grembo, prima di darsi la morte
dopo essere stato smembrato dagli schiavisti in una scena
che potremmo chiamare una passione e morte con resurrezione.
Protagonista del libretto di
Anim Addo del 2000 è invece la Principessa africana Imoinda
insieme alla sua serva Esteizme. Innamorata del Principe Oko,
Imoinda rifiuta di sottostare alla legge patriarcale del Re,
il padre di Oko, che la vuole ceduta in moglie al Capo della
tribù vincitrice di una recente battaglia; di conseguenza
sarà venduta, con Esteizme e Oko, ai commercianti di schiavi
e deportata nel Nuovo Mondo. In schiavitù Imoinda viene
separata da Oko e subisce il destino di molte schiave nel
Nuovo Mondo: lo stupro da parte del padrone. Grazie
all’aiuto di Esteizme e delle altre schiave, Imoinda troverà
la forza di continuare a vivere e anche di mettere al mondo
il frutto dello stupro: una figlia nata per non dimenticare,
mentre Oko, incapace di sopportare le catene, si ribella,
viene torturato e umiliato e infine si dà la morte. La
figlia di Imoinda nasce per non lasciare nell’ombra lo
scontro tra Europa, Africa e America da cui è nato il Nuovo
Mondo, per rivisitarne la storia multi-razziale con un atto
di “rimemorizzazione”[iii],
capace di farci udire, insieme al grido eroico degli schiavi
che hanno guidato le rivolte, quello coraggioso delle
schiave che hanno partorito figli sui cui corpi sarebbe per
sempre rimasta inscritta la tragedia della schiavitù.
Pertanto questa Imoinda afro-caraibica, a differenza di
quella europea, vivrà per dar vita a una bambina concepita
dallo stupro del continente africano da parte di quello
europeo, nel luogo in cui l’Europa ha cercato di annientare
un terzo continente, quello americano.
Oroonoko
e Imoinda raccontano la stessa Storia, quella della
schiavitù nelle piantagioni del Nuovo Mondo, ma sono storie
molto diverse: l’una è storia tragica di un eroe virile che
trova una glorificazione individuale solo a livello
metafisico, l’altra è la storia della tragedia di una intera
collettività trionfalmente salvata dalle proprie donne
capaci di darsi il coraggio per agire in modo materialista e
politico sulla realtà.
Joan:
Comincio dalla premessa che la cultura caraibica è una
cultura creolizzata e qui va situato il primo problema,
perché la cultura ibrida deriva sia dalle culture imperiali
che da quelle denigrate dalla sua difficile storia di
schiavitù coloniale. Importante per la nuova cultura è
quanto il teorico della creolité Édouard Glissant ha
chiamato “presenza invisibile.[iv]”
Ho voluto provare a mostrare
questa “presenza invisibile” in Imoinda, testo
scritto in tre atti: il primo si svolge in Guinea, la
“vecchia,” “mitica” Guinea invocata da un coro di voci; il
secondo, breve ma traumatico, è ambientato in alto mare; il
terzo sul suolo caraibico. Nel terzo atto ho collocato
questo incontro tra due uomini:
DRIVER:
Every night you hangin
round.
This night the whip’ll find
you
before moonlight catch your
tail afire
or else massa’s musket and
powder
leave such a hole no hand
can patch.
OKO:
I do not fear implements of
war.
I am . . . I was.
DRIVER:
Yes, you was! I know. I met
you before.
OKO:
We met before? Explain
yourself.
DRIVER: (Laughs)
I mean times change. Look we
now!
You could no guess under
Guinea’s sun
how times would change us.
OKO:
By the sacred memory of
Guinea . . .
DRIVER:
Guinea is only dream. Gone.
Forgotten.
Here I stay a chameleon.
Different skin.
OKO:
A dog does not change its
skin.[v]
Si percepisce la “presenza invisibile” di Oko quando dice,
“Io sono ... ero” e anche del Conducente che risponde “Sì,
tu eri! Lo so. Ti conosco” e aggiunge: “Io qui sono come un
camaleonte. Ho la pelle diversa.” A proposito
dell’esperienza caraibica Kamau Brathwaite, anch’egli
importante teorico, storico e poeta, afferma: “unity is
submarine.[vi]”
È francamente un’affermazione sconcertante che vuole mettere
in evidenza la complessità dell’esperienza caraibica. Ma
vorrei suggerire che il concetto “l’unità è sottomarina” si
coglie bene nello scontro tra i due uomini. Tutto ciò che li
unisce viene profondamente sommerso. Pensate ad esempio al
dipinto di Didone e Lea[vii],
a quanto rimane
sommersa, nascosta l’unità tra le due donne a chi non sa che
sono cugine.
Al tempo stesso il processo
di creolizzazione, che Glissant associa al caos e al
disordine, ha funzionato bene e in modo drammaticamente
radicale portando le due vite di nobile e servo a unirsi per
poi invertirne drammaticamente i ruoli. Per molti motivi che
qui non posso esplorare a fondo, Oko morirà perché resiste
al processo di creolizzazione, mentre il Conducente che
abbraccia in pieno questo processo sopravvive. Oko invoca la
“sacra memoria della vecchia Guinea”, il Conducente la
rimuove, anzi la relega al mondo dei sogni. Dunque, l’uno
sopravvive mentre l’altro va incontro alla morte.
Il viaggio che porta alla morte e resurrezione ha
particolare risonanza nella cultura caraibica creolizzata,
specialmente il viaggio per mare. Storicamente facciamo
riferimento a questo viaggio come al middle passage[viii].
Tuttavia, mentre i poeti cercano di riformulare il senso di
quest’esperienza fino ad ora fraintesa – esperienza che la
gente della diaspora africana è stata costretta a
dimenticare, con la conseguente caduta nella “presenza
invisibile” sopra menzionata – numerose metafore assumono
importanza sempre più grande. In Imoinda io focalizzo
l’attenzione sulla “nightmare canoe”[ix]:
ho cercato di ancorarla
nell’esperienza vissuta dalla gente che popola il mondo
della storia di Imoinda e anche di offrire con essa
quel senso di paralisi che assale chi cerca di comprendere
un fenomeno di violenza estrema, di caos, disordine e trauma
che vanno ben oltre il normale vissuto. Quando Imoinda si
trova sulla “canoa dell’incubo,” la nave piena di schiavi,
reagisce accusando se stessa:
IMOINDA:
To be punished like this, I
have done wrong.
ESTEIZME
Eat! The gods of our
ancestors will tell.
IMOINDA:
Taboo. It is the taboo I
have broken.
I must die. Look how I have
changed the world!
I have caused unspeakable
demons
with so many instruments of
torture
to rise and escape from the
bush of ghosts
ESTEIZME
Imoinda, such power is not
yours.
Trust me, one who has
watched over you.
CHORUS:
Nightmare canoe!
Canoe! Hold on![x]
È convinta di avere “fatto del male”, che quanto sta subendo
sia conseguenza della sua trasgressione, “il tabù che [ha]
infranto”, crede di avere “evocato demoni inenarrabili / con
strumenti di tortura tali / da farli sorgere e uscire dai
nidi dei fantasmi”. È colpa sua e deve scontare la pena.
Eppure questa è la circostanza che rappresenta la sua
entrata nel mondo / cultura creolizzati; questo è il momento
che rappresenta la nostra entrata nella cultura
creola, che pur vecchia di secoli e pregnante di significati
solo ora comincia a venire analizzata dalla gente della
dispora africana, in particolare dalla donne. Brathwaite
offre indicazioni importanti quando ipotizza che nel
contesto della “dehumanizing institution of slavery ... the
friction created ... was cruel but it was also creative”[xi].
Parte di questa
“frizione creativa” coinvolse anche l’imposizione della
cultura imperiale e la negazione di quelle che possiamo
chiamare culture native o vernacolari; a ciò si aggiungano
gli effetti del patriarcato tesi a garantire il silenzio di
razza e di genere.
Giovanna:
Pensi che si possa associare il concetto di
“frizione creativa” a quello di “singolarità” articolato da
Elena Bougleux per il nostro laboratorio?
Joan::
Assolutamente. Mentre centrale a queste considerazioni
rimane il fatto della schiavitù, anche il silenzio
specificatamente imposto alle donne afro-caraibiche ha un
significato fondamentale. Mi riferisco con questo alla
necessità di sottolineare, nel contesto della “frizione
creativa,” la mancanza di pubblicazioni di donne
afro-caraibiche e l’assenza di rappresentazioni di donne
afro-caraibiche nei testi britannici, specie in quelli
anteriori al diciannovesimo secolo, e l’impatto di queste
nuove voci e figurazioni sul mondo creolizzato alla ricerca
di sé.
Voglio rimarcare la soppressione della parola della donna
afro-caraibica che la mia riscrittura tenta in parte di
contrastare o mediare. Due elementi chiave possono gettare
luce sulla repressione storica cui faccio riferimento:
patronato e posizionamento. Le prime pubblicazioni di donne
afro-caraibiche del diciannovesimo secolo[xii] illustrano davvero
bene in che misura il patronato giusto e il posizionamento
giusto permettono perlomeno di sbeccare, se non proprio di
infrangere il silenzio editoriale.
E allora possiamo dire che in certa misura la “frizione” si
è tradotta nella tradizione del “speaking for”[xiii].
Al tempo stesso, l’adozione
di pratiche femministe trasformatrici si è rivelata di
vitale importanza nel processo teso a sovvertire questa
tradizione e rivendicare una propria voce letteraria. Ecco,
questo è uno dei significati che attribuisco alla
ri-scrittura. Ed ecco anche perché è tanto importante che
Imoinda invece di morire dia la vita:
ESTEIZME:
A girl! And hope for new
life again.
IMOINDA:
A girl? Will all you she
gods not hear me?
A girl born subject to such
misery!
WOMAN:
Yet it is life given; for
one taken.
This land may still claim
the final victory.[xiv]
Inoltre la sua progenie non
è il maschio desiderato dal suo amante, ma una bambina non
voluta, forse “speranza di un’altra vita nuova” insiste la
sua compagna Esteizme, ma anche colei che è generata dalla
violenza. Il “nascere” di Imoinda è anche figurazione della
“frizione creativa” della nuova Nazione, e delle circostanze
della sua nascita attraverso un’ibridità dissonante – non l’ibridità
che si può scegliere cui fa riferimento Homi Bhabha – e una
violenza immane.
Eppure, come ci ricorda Derek Walcott, la cultura caraibica
che possiamo conoscere e che abbiamo fino a qui lasciato
esprimersi è nell’infanzia, ha soltanto un paio di secoli[xv].
I teorici della
creolizzazione ammettono la mancanza di consenso nei Caraibi
rispetto alle norme culturali, quindi sappiamo che il
consenso popolare si scontra con l’insegnamento coloniale
rispetto a norme e usanze culturali condivise. Per questo il
testo creolo come forma di mediazione culturale esiste per
il momento solo a livello di “lavoro di scavo letterario”
come direbbe Toni Morrison. Un testo come Imoinda si
basa infatti su frammenti letterari. Altro non ci resta da
fare, vista la nostra storia. I nostri sono testi che
cercano di mirare a una certa “unità culturale” sondando la
“presenza invisibile” delle culture assenti e denigrate. E
persino all’interno di questa ricerca, le voci di donne, le
voci delle donne nere, rischiano la soppressione.
Invito a leggere la mia Imoinda in rapporto alla
“frizione creativa” di cui ho parlato: essa ha costituito la
prassi trasformativa femminista identificata da Carole Boyce
Davies come fondamentale per la comprensione delle
scrittrici nere[xvi].
È un processo che io
traduco in termini di mediazione culturale. È per
questo che Imoinda si sforza di dare voce non solo
alla madre creolizzata della regione caraibica intesa in
quanto Nazione, inserendo pertanto in maniera visibile le
donne nere nella storia della regione, ma anche come
tentativo di affermare una storia che i primi scrittori
maschi avevano cercato di negare, concependo i Caraibi come
spazio dell’assenza della storia, le isole come officine non
come spazi culturali.
Giovanna:
Sottolineo come qui il tuo intervento venga a congiungersi
con le indicazione offerteci da Liana Borghi su una
globalizzazione che è glocalizzazione; quanto dici su
creolizzazione, intesa come lingua della discontinuità, mi
sembra in sintonia con lo sforzo di coniugare da una parte
l’identificazione con il globale e dall’altra la
focalizzazione sulle differenziazioni locali.
Joan:
Sicuramente, infatti altrove ho scritto:
she weaves a tale so fine
so sad
so beautiful in the telling
of a people
with a story so terrible
it could only be known
through story;
so painful,
only a song could capture it
without bruising those who
heard
[xvii]
Questa è la storia di Imoinda e dei Caraibi
[xviii].
È anche la storia del processo attraversato da una donna afro-caraibica nel ventesimo secolo per iscriversi nel
(chiuso) paesaggio letterario britannico ed entrare a far
parte di una “catena internazionale”[xix].
Mi fa piacere che un anello
di questa catena internazionale, quello delle preoccupazioni
femministe condivise, abbia portato Imoinda a venire
tradotta e pubblicata in Italia; in tal modo questo testo
può crescere, godere di nuove possibilità, trovare altre
affiliazioni.
Giovanna:
E io non so dirti quanto abbia fatto piacere a Chiara
e me viaggiare dentro al tuo testo e cercare di portarcene
un po’ a casa con la nostra traduzione: è stata anche la
nostra una mediazione culturale condotta con la massima
attenzione e piena di interrogativi irrisolti rispetto a
come negoziare la creolizzazione che di fatto si propone
alla nostra lingua e cultura con la traduzione di Imoinda.
Quanto portare il più possibile intatto al di qua
dell’oceano, quanto invece trasformare per riuscire a
comunicare meglio... le nostre due culture sono molto
distanti anche se condividono la terribile storia della
colonizzazione del Nuovo Mondo. La tua storia fa tutt’altro
che soddisfare il bisogno diffuso di storie semplificate
tanto che rifiuta di ridurre persino la storia della
schiavitù a una storia in bianco e nero – la parola “nero”
entra nella tua scrittura e nel tuo pensiero con tutta la
complessità storica che da sempre la caratterizza e si muove
libera dai vincoli razzisti che la vogliono invece relegata
al monolite dell’alterità. Solo la nominazione di parole
come “razza” e “nero” in lingua italiana, tuttavia, ci dà il
senso di quanto lavoro di mediazione culturale vada sotteso
con questi termini che tu usi nella lingua inglese in senso
precisamente connotato dal contesto della colonizzazione del
Nuovo Mondo e che possono venire assunti a valore metafisico
in italiano; molto ancora si deve fare per prendere
coscienza politica, non semplicemente filologica, di parole
comuni quali quelle che, per esempio, hai usato poco sopra
tu, “denigrare” e “vernacolare” per coglierne il legame con
il razzismo contro i “neri” e il disprezzo per gli schiavi.
Ma tralascio qui le difficoltà più ampie legate all’uso del
concetto di razza e mi soffermo invece su due esempi più
specifici legati alla traduzione di Imoinda: il
titolo del libretto e la nominazione dei ruoli legati
all’istituzione della schiavitù.
Nel primo caso la scelta di tradurre Imoinda, or She Who
Will Lose Her Name con Imoinda, colei che perderà il
nome sembra dettata puramente da regole stilistiche
della lingua italiana che suggeriscono di eliminare “or” e
“own” perché ridondanti. Eppure la concentrazione
dell’italiano produce l’effetto di richiamare l’attenzione
su uno degli aspetti più importanti di questa storia:
l’articolazione della complessità. Nonostante il mondo di
Imoinda sia tradizionalmente il mondo del bianco contro
il nero degli schiavi nelle Americhe, la realtà che riflette
è piuttosto un fitto intreccio di varie diversità e il
titolo cattura per prima quella di classe, non quella di
razza: Imoinda infatti è anche la storia della
principessa che perde il proprio nome nel diventare schiava
e della sua Serva che invece lo acquista, diventando in
schiavitù la sua compagna Esteizme. La presa di coscienza e
di coraggio della protagonista passano sempre attraverso il
dialogo con Esteizme il cui ruolo è di ascoltare per
mostrare a Imoinda la via da intraprendere. Il testo
rovescia già in apertura, a Palazzo in Africa, la gerarchia
di classe e affida proprio alla Serva il compito di
veicolare una conoscenza superiore a quella della
Principessa quando le dice: “My burden is seeing far; /
Watching over you. / My burden is seeing far; / Watching
over you. / So that you can grow, I wait; / Watching over
you”[xx]
;
successivamente, a bordo della nave schiavista, con la
stessa sicurezza ma con tono e registro diversi, e con la
forza del nome che il testo ora le conferisce, sarà sempre
lei a spiegare alla padrona che ora sono sorelle: “IMOINDA: are these?
[...] ESTEIZME: Eat! Our new family awaits you. / Shipmates
all: our family in sorrow” (Imoinda...
86-7)[xxi]
;
e alla fine, nella
piantagione, sarà ancora Esteizme a portare Imoinda a
scegliere la vita, nonostante tutto:
ESTEIZME:
You have the
pikin to think of.
IMOINDA:
Death is better. [...]
IMOINDA:
I have seen
beautiful humming birds (Music – “Moon Witness”)
sipping the
life sustaining nectar.
Just so once, I
took all I needed.
Now no more.
The birds are free. Not me. (panting)
Dun coloured
cows with baleful eyes
stand still in
the storm.
They are bred
as it suits their owners.
Not me; I would
rather die. (her panting quickens)
What is this
pain that gnaws at my insides?
Gracious death,
I embrace you!
Esteizme, take
my hand.
I feel a fierce
burning deep inside me.
ESTEIZME
Take my hand. Tighter.
It is the pikin.[xxii]
Mentre Imoinda partorisce, la voce di Esteizme si intreccia
con quella di una Donna prima al singolare e di Donne
successivamente soggetto plurale, a sottolineare l’aspetto
femminile di questa comunità che sceglie la vita:
WOMAN:
In order to
cross the river (MUSIC – “Her Back A Bridge”)
We first must
build the bridge.
CHORUS:
And bridges
come in different size
shape and look
but are bridges for all that.
WOMAN:
Your back, my
child is a bridge.
Push! Let it
come. Let it breathe.
IMOINDA:
No! Unless I
know it is a son
to wreak rough
vengeance upon a father.
Besides, I’ll
have none but a warrior.
WOMAN:
Your back, my
child is a bridge.
CHORUS:
And bridges
come in different size
shape and look
but are bridges for all that.
WOMAN:
Your back, my
child is a bridge.
Push! Let it
come. Let it breathe.
IMOINDA:
No! No! Not in
this cursed place!
No! I say
again. Not in this cursed place!
Not yet! Not
ever! Nooooooooooo!
WOMAN:
Your back, my
child is a bridge. (MUSIC – “Sleeping
Volcanoes”)
Push! Let it
come. Let it breathe. (Women circle)
WOMEN:
Push! Let it
come. Let it breathe
We sleeping
volcanoes; we women.
CHORUS:
We slumbering
volcanoes,
seemingly so
unmoved and unmoving.
WOMEN:
See how serene
we seem at times to be;
beautiful even,
some moments.
Push! Let it
come. Let it breathe!
IMOINDA:
No! Cover me in
coconut branches
when I die.
WOMEN:
We sleeping
volcanoes; we women
CHORUS:
Sleeping
volcanoes; our women, our men
and when we
erupt, rumble
spit stones of
words; pour fires of rage
then you know
we are not stone.
WOMEN:
Then you may
know we sleeping volcanoes
are tender,
thoughtful, suffering
but not endlessly.
IMOINDA:
Bury me
beneath. Ahhh! (Screams. A baby’s cry is heard)
ESTEIZME:
No! Not yet
death! Listen! A baby’s cry!
WOMAN:
New life! Where
there is new life there is hope.
ESTEIZME:
A girl! And
hope for new life again.
IMOINDA:
A girl? Will
all you she gods not hear me?
A girl born
subject to such misery!
WOMAN:
Yet it is life
given; for one taken.
This land may
still claim the final victory.
IMOINDA:
Though this be
only life of sorts,
In this new
place, I have chosen life. (They pass the baby round)
(MUSIC –
“Tasted Sorrow” theme)
CHORUS:
River Volta:
Listen!
River Nile:
Listen!
River Gambia:
Listen!
River Niger:
Listen!
River Congo:
Listen!
The waters of
five rivers:
Listen!
Witness a first rite completed.[xxiii]
Imoinda
è una storia che esplora il significato del potere, sia
inteso come dominio che come empowernment, perciò
smonta radicalmente la logica razzista del bianco e del nero
che ha sostenuto l’istituzione della schiavitù e ci consegna
altre parole per ricordarla e comprenderla. Già in Africa,
il potere del Re è diverso da quello del Capo, quello di Oko
diverso da quello di Imoinda e poi nella piantagione a
dividere l’umanità in due non è il colore della pelle ma il
fatto che c’è chi la frusta la dà (il Conducente) e chi la
riceve (Oko). Joan Anim Addo non poteva tollerare il
silenzio che Aphra Behn aveva imposto a Imoinda, consapevole
che la frusta non ha potere assoluto, infatti non può
cancellare la memoria, e quindi si è coniugata con Imoinda
per far modo che il suo raccontare divenisse un
raccontar(si), come bene vediamo nella prima stanza della
sua poesia My Imoinda:
Looking into
her eyes
my soul takes
fire;
soars to reach
the sky.
Don’t catch me;
let me rise
until I fall again.
Don’t catch me.[xxiv]
Rompere il silenzio diviene quindi chiaramente anche un atto
cognitivo, come si legge nella conclusione a Creation
Story:
Now in a space
she claims
that feels
sometimes
like home
a woman poet of
the new tongue
at evening time
sings alone
And whilst
others not too distant
hearing notes
of fluid pain
pause puzzling
she gives voice
that soars on
high calling
won’t you,
won’t you
trace the scars
of my knowledge
with your
fingers
to begin our
knowing?[xxv]
Si tratta perciò di una atto di empowernment, capace
di fornire forza per il presente e il futuro, non
semplicemente di revisionismo storiografico. Questi versi
possono essere letti con in mente l’incipit di Creation
Story: “In that beginning there was silence”[xxvi],
un silenzio
interrotto dalla voce della poeta che canta da sola. Ma sono
i versi di Storyteller a teorizzare l’obbligata
coniugazione di storia, gender, narrazione e musica per
arrivare a questa conoscenza e consapevolezza che sono
fonte di empowernment:
she weaves a tale so fine
so sad
so beautiful in the telling
of a people
with a story so terrible
it could only be known
through story; / so painful,
only a song could capture it
without bruising those who heard.[xxvii]
Confrontarci a nostra volta,
seguendo l’esempio di Anim-Addo, con Imoinda e con la
storia della schiavitù africana che è anche e senza
contraddizione la nostra storia, ci permette di abitare un
luogo nel quale le nostre definizioni di conoscenza,
identità e realtà vengono messe in discussione dal fatto
evidente che il dato materiale risulta prendere forma con il
costruirsi di una rete di narrazioni.
Tradurre Imoinda in italiano, come ho fatto insieme a
Chiara Pedrotti è stato un modo per accettare tale
confronto. Ha significato non solo abitare lo spazio che
separa questo testo da Oroonoko, ma anche assumerne
il posizionamento: gender-izzare e creolizzare la realtà
della schiavitù africana equivale a porsi in un’ottica
trasversale, relativa e multipla, capace di fare a brandelli
il binarismo razzista e patriarcale che l’ha resa possibile.
È stata una ricerca di parole legate a questa storia che la
lingua italiana non offre già pronte – come è il caso dei
ruoli assegnati a chi controlla il potere all’interno
dell’istituzione schiavista della piantagione: per esempio,
non è stato semplice scegliere come nominare il driver
che conduce il carro di schiavi sul luogo di lavoro, di
colui che detiene il potere della frusta, e che tuttavia
essendo africano è a sua volta soggetto al potere dell’overseer,
il sorvegliante bianco che nelle piantagioni dei Caraibi, a
differenza di quelle degli Stati Uniti, faceva le veci del
padrone (Massa), visto che quest’ultimo preferiva
mantenere la residenza in Inghilterra. Siamo consapevoli che
“Conducente,” “Sorvegliante” e “Padrone” non sono scelte
felici, soprattutto stilisticamente, ma abbiamo anche voluto
fare in modo che l’italiano strida piegato dalla “frizione
creativa” cui Imoinda lo costringe. È stata pertanto
la ricerca di portare un’esperienza ‘altra’ dentro la nostra
lingua. Non ho potuto fare a meno di pensare a Donna Haraway[xxviii] che mi ha insegnato a considerare le figurazioni
linguistiche come immagini performate, e allora è con
sguardo queer e creolizzato[xxix] ,
di sghimbescio, senza pretesa né di neutralità né di ricerca
della verità, che con Chiara abbiamo tradotto Imoinda,
senza dimenticare Oroonoko e vogliose di imparare a
riscrivere una storia che “senza contraddizione” è anche
nostra. Altro non si può comunque fare traducendo: è un
lavoro ai margini, che attraversa il testo senza potervisi
fermare, lo coglie di striscio in maniera assolutamente
temporanea, e nel suo errare si pone sempre a comunque dalla
parte del torto – una traduzione non è mai “quella giusta”,
per quanto bella sia. Tradurre è un po’ come navigare:
compaiono nodi, links, percorsi, il viaggio assorbe
specifiche realtà che hanno fondamento materiale e riflette
l’espressione di un desiderio infinito. Tradurre significa
entrare in una trattativa continua tra lingue e tra culture
nel tentativo di occupare almeno per un attimo quello
“spazio intimo” che si nasconde tra le pieghe della retorica[xxx] e consente di
tradurre non soltanto parole ma anche culture, cercando di
evitare, da un lato, di ridurre realtà a noi lontane e poco
note ad un esotica e monolitica alterità, e dall’altro, di
diffondere acriticamente nella lingua italiana contemporanea
termini che appartengono a una realtà storica razzista e
colonialista ben specifica nella lingua inglese.
In Imoinda, non
dimentichiamolo, la tragedia della schiavitù viene cantata
in musica, celebrata con una danza che ci ricorda:
nonostante tutto, gli schiavi sono sopravvissuti! Questa
storia che trascende la pura mimesi esprime anche il
desiderio, il quale, concepito come forma di conoscenza,
articola il rapporto tra storia e identità. Quindi nemmeno
nella realtà incatenata della piantagione gli esseri umani
sono semplicisticamente divisi tra “bianchi” e “neri”:
invece la linea di separazione viene data – in modo
performato e non essenzialista – dalla frusta: da una parte
chi la usa, dall’altra chi la subisce. E il testo ripete che
quello della frusta è un potere limitato: ciò che si ricorda
non può venire cancellato dalle frustate. Imoinda
celebra la memoria contro la morte, che troppo spesso la
nostra cultura contrappone al desiderio di immortalità.
Imoinda non insegue questo desiderio, ma fa ricorso a una
narrazione capace di mescolare mito e fatto, capace di non
dimenticare. Per questo troverà la forza, con l’aiuto di
tutte le altre donne, di dare alla luce sua figlia – una
figlia destinata a non dimenticare, perché con lei i popoli
africani deportati nel Nuovo Mondo e qui trasformati in
“razza nera” cominceranno a farsi etnia, a crearsi una
propria cultura che dalla schiavitù non può prescindere ma
da essa e dal razzismo che la sottende si saprà liberare.
Come dice Joan: bisogna far
festa, perché nonostante tutto ce l’abbiamo fatta e ci siamo
ancora. Ecco perché il romanzo del 1688, nel 2000 è
diventato opera musicale: una notizia così bella non si
poteva che cantare e danzare appropriandosi in modo
carnevalesco di uno dei codici espressivi classici della
cultura europea, l’opera musicale italiana, naturalmente
sottoposta a un processo di creolizzazione che vede il “bel
canto” alternarsi e fondersi con i tamburi. Musicare questa
storia non è una scelta: il perché lo leggiamo ripetutamente
nel libretto che sottolinea in più modi come solo la musica
possa viaggiare libera e solo i tamburi possano dare voce
alle lingue tagliate degli schiavi.
Joan:
Nella catena di questo libretto d’opera vanno tenuti ben
presenti gli anelli musicali. La “poetica della relazione”
sviluppata da Glissant coniuga teoria della storia caraibica
e poetica caraibica ponendo al proprio centro la
comprensione della natura dei collegamenti noi autori
afro-caraibici ci troviamo ad affrontare devono negoziare
tra questi nodi di collegamento. Perciò, la lingua creola e
la lingua inglese segnano il mio viaggio dentro l’inglese
del testo di Behn. Sono consapevole della conoscenza
condivisa che il viaggio di Imoinda rappresenta: la immagino
parlare la lingua ga in Africa e poi cercare di capire
olandese, spagnolo, inglese e francese sulla nave
schiavista: la sua conoscenza condivisa deve essere una
parlata multilingue e tutta l’esperienza della schiavitù è
esperienza di questa condivisione; è storia di Aphra Behn
quanto mia e, come evidenzia Brathwaite, il processo di
creolizzazione è a doppio senso.[xxxi]
Ma la differenza sta
nel fatto che nel 1688 Behn non poteva immaginare che noi
saremmo sopravvissuti. Lei non lo sa che Imoinda è
sopravvissuta, che non è stata zitta e che sua figlia ha
generato a sua volta discendenti che stanno ri-scrivendo
questa storia condivisa. Imoinda con la maternità accetta
l’Altro che sta dentro di lei, accetta il proprio io
creolizzato attraverso lo stupro e quindi rappresenta per me
una conoscenza catapultata in uno spazio nel quale, pur
insicura di sé, si trova posizionata all’interno di una rete
di madri che le offrono sostegno per sopravvivere in quel
nuovo mondo di terrore che fu il mondo creolizzato. Il testo
scritto è creolizzato e parla al plurale per tradizioni
diverse; forse dovremmo chiederci fino a che punto questi
siano testi oppure forme di mediazione. Le condizioni che
governano la produzione letteraria delle donne
afro-caraibiche, anch’esse parte di una relazione prodotta
dalla schiavitù, offrono ancora un accesso precario ai mezzi
di pubblicazione, tant’è vero che una scrittrice inglese /
creola che vive in Gran Bretagna trova più facile accedere
alla pubblicazione in Italia, specie se il suo testo si
propone di gender-izzare oltre che di creolizzare
l’originale. Imoinda è per me una ri-scrittura tesa
ad inscrivere l’identità caraibica, creolizzata,
gender-izzata nella storia e questo ritengo sia un atto di
mediazione culturale che si compie all’insegna della
complessità.
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[i]Joan Anim Addo, Imoinda, or She Who Will Lose Her
Name / Imoinda, colei che perderà il nome, tr.
it. di
Giovanna Covi e Chiara Pedrotti, nell’Appendice con
testo originale a Voci Femminili Caraibiche e
Interculturalità.
[ii]Per
l’ottima traduzione, il ricco apparato
storico-biografico e la stimolante presentazione
critica del testo, rimando all’edizione bilingue:
Aphra Behn, Oroonoko or the Royal Slave /
Oroonoko schiavo di sangue reale, a cura e con
traduzione di Maria Antonietta Saracino.
[iii]
Toni
Morrison elabora le implicazioni teoriche del
termine “rimemorizzazione” in Playing in the
Dark: Whiteness and the Literary Imagination;
tr. it. Giochi al buio.
[iv] Si veda Édouard Glissant, Caribbean Discourse,
pp. 66-67.
[v]
CONDUCENTE:
Tutte le
sere ti fermi qui.
Questa
sera ti fermerà la frusta
prima
che il chiaro di luna si posi sulla tua coda in
fiamme
o che il
moschetto e la polvere del padrone
vi
lascino un buco così grande che neanche una mano lo
può tappare.
OKO:
Non temo
le macchine da guerra;
Io sono...
ero.
CONDUCENTE:
Sì, tu
eri! Lo so. Ti conosco.
OKO:
Ci
conosciamo? Spiega.
CONDUCENTE: (Ride)
Come
cambia il tempo. Guardaci qui!
Non si
sarebbe immaginato sotto il sole della Guinea
quanto
ci avrebbe cambiato il tempo.
OKO:
In nome
della sacra memoria della Guinea...
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