In questo intervento riprendo il desiderio di utopie (im)possibili con cui pensare a sopravvivere nuovamente alla perdita, come un lutto, così come, più in generale, a quello che José E. Muñoz (2022) definisce “il pantano del presente” – una definizione che collega la sfera del sentire, l’affetto, all’agire politico e al bisogno di cambiamento sociale, e rintraccia nella relazionalità il potenziale di distruzione-costruzione di mondi e modi di fare differenza1. Cercherò di seguire-perdendo Liana attraverso una “lettura diffrattiva” – con amore, per riprendere il titolo del convegno – di alcuni suoi testi, scritti a poca distanza l’uno dall’altro ma che raccontano di storie, attraversamenti, percorsi, incontri-scontri, relazioni e condivisioni che credo ci riguardino profondamente. In altre parole, vorrei proporre una modalità di incrocio e sovrapposizione di testi diversi aprendo ad altri testi ancora, scritti da Liana e non, attraverso la lente di un impegno che condividiamo nel raccogliere una o più tracce delle sue eredità plurali: un ricordo dell’incontro con le persone e il progetto del Giardino dei Ciliegi (Borghi 2016), un saggio sul dominio (Borghi 2019), e in particolare, un breve scritto sull’anarchia (Borghi 2014). E qui ringrazio Clotilde e le altre che nella Presentazione del convegno ci ricordano l’importanza di sottrarsi a una concezione normativa dell’idea stessa di eredità, mettendo in atto un lavoro sul linguaggio che ha segnato tante delle esperienze e delle iniziative di collaborazione con Liana: “L’eredità non è qualcosa da sfruttare o da usare per creare altarini, ma significa invece esplorarne lo spazio, riflettere sul viaggio conoscitivo che essa consente”.
1 Rimando al testo di Muñoz per l’applicazione del concetto di “pantano” (quagmire) nel contesto del desiderio di mondi diversi.
Spero di riuscire a condividere un modo di raccontare e di raccontar/si, di leggere Liana attraverso Liana e le trame della relazione. I momenti in cui è lei a parlare e quelli dove sono io a farlo si sovrappongono, unendosi, confondendosi (o confondendoci). Non è la messinscena di un dialogo o di uno scambio pianificato e mai avvenuto, né di una mossa celebrativa, né è tantomeno un tentativo di appropriarmi delle sue parole, ma piuttosto uno spiraglio da cui ri-partire insieme a Liana, insieme ad altr*, in uno spazio che lei ha vissuto come “presenza costante”, dove sentirsi parte di un gruppo (Borghi 2016, 247); una possibile mappa per trovare insieme modi di con-vivere qui e ora in “un seme denso di altri tempi e spazi” (Borghi 2018, 36) – un passato-presente-futuro. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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Mi è capitato spesso di pensare che, nei rimandi alle figure della “complessità”, alle “tracce aggrovigliate di alterità”, a “nuovi modi di fare mondo”2, il femminismo neomaterialista è un modo efficace di parlare del rapporto esistente tra la volontà di salvaguardare il mondo che esprime il superamento del binarismo “umano”/“non-umano”, le questioni etiche sulla reciproca vulnerabilità del rapporto con altr*, la (non)violenza da un lato, e dall’altro il perpetuarsi della sottomissione strategica della natura da parte di una cultura del progresso dalle tendenze suicide. Un bisogno di fare differenza attraverso la teorizzazione di forme di con-vivenza che presuppongono l’inevitabile inter-relazionalità di pratiche discorsive e materiali, dicono Donna Haraway prima e Karen Barad poi. La ricerca di un vocabolario più ampio che oltrepassi i limiti di un modello di interazione tra entità autonome, pre-costituite anche se aperte all’incontro, spiega il potenziale di un termine come intra-azione. “Intra-azione” risponde della molteplicità di livelli materiali e discorsivi all’opera nelle pratiche sedimentate con cui si è portata avanti in vari ambiti la separazione tra soggetto e oggetto, tra sé e altr*, tra cultura e natura. È quindi necessario considerare gli effetti delle pratiche che interagiscono su questo doppio registro e poter così rendere giustizia alle differenti realizzazioni e materializzazioni delle categorie dell’umano e del non-umano. Nella visione radicale della differenza di Barad, le relazioni di inseparabilità costitutiva con l’alterità sono parte integrante della costituzione di concetti e delle loro incarnazioni: la relazione non è più il risultato, ma l’instabilità e l’imprevedibilità in movimento e continua della relazionalità.
2 Citazioni tratte dalla Presentazione del convegno, disponibile sul sito del Giardino dei Ciliegi.
Per Liana, la diffrazione è un metodo di leggere-sentire ma anche essere in relazione, dove “essere e sapere sono reciprocamente implicati” (Borghi 2018, 34). In Bodymetrics. La misura dei corpi, a cura di EcoPol / Ilenia Caleo, scrive che:
una lettura per diffrazione farebbe interagire i testi al di là di ogni legame apparente di parentela e potrebbe studiarli l’uno attraverso l’altro, producendo una nuova ‘coscienza critica’ non interessata al rapporto di riflessione tra l’originale e la sua copia, ma al cambiamento di prospettiva, e a produrre qualcosa di nuovo. (ibidem, 33)
Questo potrebbe cambiare la base su cui i testi si incontrano: non più come oggetti che pre-esistono al loro incontro in una comparazione, ma come “relata” le cui qualità ed effetti si specificano attraverso la relazione, specificando allo stesso tempo l’“apparato” (i testi, la lettura e chi legge). Gli approcci femministi e neomaterialisti si basano sui tipi di “misura” e “apparato” che impieghiamo per leggere i fenomeni, ma ci rivelano anche l’uso (discutibile) di certi metodi/strumenti rispetto ad altri. Permettono inoltre di cogliere le differenze che tali scelte Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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comportano e la loro importanza, nonché il fatto che siamo tutt* implicat* come soggetti-oggetti nella (ri)creazione di mondi, nell’apertura e nella chiusura di possibilità. Un approccio diffrattivo alla lettura comparativa riguarda la compresenza di prospettive situate, affetti, incarnazioni e “capacità di risposta” (response-ability; Haraway 2016). La sua importanza radicale per la lettura dei testi culturali risiede nell’intra-azione di questi elementi, dove ognuno è determinato da un punto di vista, una prospettiva, un posizionamento o un apparato di misurazione e osservazione. Questa relazione creativa produce l’intelligibilità della performance singolare della lettura (concepita anche come atto affettivo, come pratica dell’affetto), che è percepita come già altra da sé, come mutevole all’interno e attraverso molteplici luoghi e contesti, a loro volta intra-agenti l’uno con l’altro.
Ciò che mi sembra importante seguire e condividere del progetto del femminismo neomaterialista, che insiste su una concezione dell’essere che supera i propri confini, è il modo in cui ci aiuta a sottrarci alle strutture di potere gerarchiche ed egemoniche, su tutti il principio che regge ogni dualismo. Mi collego, quindi, al testo “Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva”, che Liana ha pubblicato su richiesta di Paolo Finzi in A-rivista anarchica. Qui Liana racconta la storia del laboratorio Raccontar/si, a partire dalla sua origine nel 2000 insieme a Clotilde e la Società italiana delle letterate, ma anche in dialogo con la rete europea di studi sul genere Athena, tramite l’Università di Firenze. E mette in circolo poi una serie di idee, alcune delle quali cerco di raccogliere e portare qui:
# La volontà di “trasmettere e condividere […] intercultura di genere”3
3 Quando non esplicitato diversamente, tutte le citazioni indicate nei punti indicati con # sono di Liana Borghi (2014).
Abbiamo bisogno di pratiche pedagogiche dis-ubbidienti, che suscitino il desiderio di interrogarci sulla nostra posizione all’interno dei processi di separazione dall’alterità e di cambiamenti che sono già in corso ancora prima che sia possibile teorizzarli, e di conseguenza sapervi resistere. Di pensare maggiormente ai modi in cui nutrire il nostro bisogno legittimo di dire “no” (Gandhi 2019), di rifiutare il consenso in nome dell’apprensione di una vulnerabilità estesa che pur non implicandoci tutte allo stesso modo (Butler 2021), riesca a fornirci gli strumenti per vivere in un mondo in cui gli effetti del suo collasso accendono in noi il desiderio di forme affettive dell’incontro e della complessità, della vulnerabilità che ci lega indissolubilmente a ciò che è altro-da-noi (Tsing 2017). Siamo già dentro alla fine del pianeta che abitiamo, ci ricorda Timothy Morton (2013), e da questo punto occorre partire altrimenti per fare differenza senza una visione che ci allontani dal presente in nome di un futuro che non appartiene mai a tutt* indistintamente. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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# L’impegno a “insegnare imparando, imparare insegnando: dalla teoria alla pratica e viceversa” come “impegno collettivo”
Nel volume Il Giardino dei Ciliegi, di Laura Marzi, che raccoglie una ricerca coordinata da Clotilde Barbarulli sulla storia dell’associazione, Liana racconta così la propria esperienza:
A me interessava stabilire una forte sinergia fra la Libreria, il Giardino, l’università e la comunità inter/nazionale LGTQ che frequentavo. Il Giardino diventò una risorsa importante con la quale sentivo di condividere il mio percorso di studio e ricerca non solo letterario – sui soggetti liminali ed eccentrici, sul queer, il genere come performatività, i corpi post-umani, le culture dell’internet – sempre alla ricerca di aggiornamenti transnazionali, convinta che il groviglio di teoria, pratica e politica ci riguarda e coinvolge. (2016, 246)
Per me è interessante notare quanto questo si leghi anche all’idea di brown commons di Muñoz, che verso la fine della sua vita scopre e si interessa al neomaterialismo femminista mentre prova a ri-scivere i latinx studies. E ci dice che la brown commons “is about the swerve [sterzata] of matter, organic and otherwise, about the moment of contact, and the encounter and all that it can generate” (2020, 2), ricordandoci più volte che si tratta di una formazione “parziale”, “non-conoscibile” e “non-anticipabile”.
# Dis-imparare imparando altrimenti: “stare, pensare, fare in relazione”
Con Liana abbiamo riflettuto spesso sul mio posizionamento come “impostore” negli spazi femministi online e offline – le discussioni, le e-mail, le pubblicazioni, le conversazioni su Skype, le conferenze, gli eventi accademico-attivisti. In che modo il mio essere cis (ri)-forma questi spazi femministi e come viene (ri)-formato da e in questi spazi? In questi incontri affettivi, pedagogici e politici, posso rivendicare legittimamente uno spazio come (non) mio, e lo spazio che sto occupando rappresenta un impegno di affinità o l’ennesima, potenziale minaccia?
Il mio essere in uno spazio femminista annulla la mia singolarità, trasformando quello che sono nel risultato finale di processi e incontri non conclusi (Haraway 1988), per riuscire a imparare a “vedere insieme senza pretendere di essere un’altra”, ancora (ibidem, 586). E con Liana abbiamo parlato spesso dell’importanza della “visione” per qualsiasi attraversamento di confine. Mentre mi trovo a negoziare il (dis)agio della “sindrome dell’impostore” negli spazi femministi, spero però di continuare a sperimentare questi e molte altre forme di “spossessamento queer”, come le chiama Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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Julietta Singh, che mi aiutano a pensare che sia possibile vivere un modo completamente diverso di abitare il sé (2018, 8).
# L’impegno nel praticare “una socialità amorevole, costruttiva, trasformativa” in spazi non-istituzionali
In questa idea della socialità rintraccio una critica importante verso il concetto di umano in tutte le sue sfaccettature, come anche nel paper sul dominio, dove Liana riprendendo ancora il femminismo neomaterialista ci parla di come “una pratica materiale collegata al complesso industriale-materiale – la fisica quantistica – potrebbe offrire speranze di cambiamento dentro i sistemi egemonici di dominio, inquietando la totalità e la chiusura attraverso l’indeterminazione” (2019, 9).
# Saper sentire e vedere (l’importanza della) “complessità”
Voglio leggere questo invito soffermandomi sul duro lavoro che comporta la relazionalità a tutti i livelli, dalla teoria all’indagine sul sociale e il cambiamento. È ciò di cui parla Jack Halberstam in L’arte queer del fallimento, di recente tradotta da Goffredo e con CRAAAZI, quando parla di “un ottimismo che assomiglia a un sottile raggio di sole, che produce ombra e luce in egual misura, e che è consapevole del fatto che il significato dell’una dipende sempre dal significato dell’altra” (2022, 14); e ancora “dobbiamo de-formarci, disimparare quello che sappiamo in modo da riuscire a riaprire lotte e dibattiti lì dove le questioni sembrano risolte e pacificate” (ibidem, 23).
E ritorno alla domanda che continua a sembrarmi la più importante in questo caso, con chi intendiamo fare questo viaggio? Con chi vogliamo produrre nuove mappe? Quale parte di noi dobbiamo saper mettere in gioco?
# Dis-imparare per imparare altrimenti come esempio di “buone pratiche femministe”
Qui penso al mio bisogno di cominciare dis-imparando nel quotidiano, partendo dall’infinitesimamente piccolo (un’espressione di Liana che mi piaceva molto), quel “mandato di mascolinità” di cui parla Liana nell’intervento sul dominio, riprendendo il concetto elaborato dall’antropologa e femminista argentina Rita Segato e dall’ attivista uruguaiano Raúl Zibechi (2019, 3). Questo, per me, è uno dei sensi più importanti con cui comprendere le eredità plurali di Liana. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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# Muoverci insieme vero la “queerness del quanto che ci mostra la dis/continuità e il dis/farsi dell’identità nella sua im/possibile trans/formazione”
A me interessa un lavoro costante sulla lingua, sul linguaggio, e da questo punto di vista i segni grafici come la barra rappresentano spazi di possibilità. E interessano due domande in particolare: Come possiamo portare avanti questo lavoro, come possiamo praticarlo negli spazi della quotidianità? In che rapporto esiste con la sottrazione e la critica al dominio? Come fare per non renderlo uno spazio che, come altri, rischia di essere cooptato?
# L’idea dell’anarchia come “movimento discontinuo” (da Judith Butler), come un “suggerimento di latenza” che per Liana era produttivo e portatore di speranza collettiva, ricordando quelli delle varie edizioni della scuola estiva come “incontri dove si fa contro-in-formazione, dove anche il corpo diventa strumento di resistenza, e dove si parla di quello che c’è, e di quello che non c’è”
Rintracciare le espressioni del queer come “movimento discontinuo” che esiste insieme all’idea di anarchia è un modo per me significativo di affondare negli archivi (del) queer. In proposito, mi viene da pensare al concetto di wildness dall’ultimo lavoro di Halberstam, dove il termine di codifica come “né utopia né distopia”, ma piuttosto denota una forza (force) di re-agire, ma anche un modo di essere (way of being) che emerge da esperienze vissute e incorporate e collega storie di esilio, oppressione, migrazione, divenire-altrimenti, umano e non-umano, animale, naturale e innaturale. Wild, continua Halberstam, è uno spazio anti-egemonico da cui contestare l’ordine di ciò che è stato e ciò che è, “offre prossimità alle critiche di questi regimi di significato, aprendo alla possibilità di disfare [unmaking] e demolire [unbuilding] mondi” (2020, 4), per cui possiamo interagire con questo concetto anche se porta con sé delle storie dolorose, di violenza e occupazione, di dominio e di coercizione. Per me, questo è un esempio di zona di contatto piena di possibilità e di potenziale, che lega l’anarchia come rifiuto di ogni forma di dominio, al queer e all’utopia come desiderio di distruggere-creare, come forme di progettualità e di desiderio sostanzialmente collettive.
# La critica queer alle istituzioni
Nell’articolo per A-rivista anarchica, Liana sottolinea nuovamente la storia del queer verso la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, dall’attivismo delle chicane e afroamericane alle proteste di ACT-UP; e ci ricorda quanto “la critica queer alle istituzioni […] ha lo scopo di cambiare la visione che abbiamo del mondo e di portare a ripensare collettivamente la vita – cominciando Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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da noi stessi – senza ricadere in un progressivismo positivo”. Nell’attuale ordine globale, quali forme dovrebbe assumere la speranza? Vorrei chiudere ancora con Muñoz:
Questa speranza è quello che chiamo speranza critica o desiderio sapiente; un rifiuto attivo e la richiesta importante di qualcosa di diverso. L’utopismo critico non nasce dall’autocompiacimento, da un ozioso desiderio che le cose migliorino. Nasce dal senso di indignazione che si prova per il danno che colpisce gruppi, individui, culture, stili di vita e il pianeta stesso. Il compito a portata di mano non è mettere in atto un bene comune, ma toccare un bene comune realmente esistente. (2020, 6)4
4 “This hope is what I have called a critical hope or an educated desire; it is an active refusal and a salient demand for something else. Critical utopianism is not borne of complacency, of an idle wishing for things to get better. It is borne of the sense of indignation one feels at the harm that is visited upon groups, individuals, cultures, ways of life, and the planet itself. The task at hand is not to enact a commons, but to touch an actually existing commons”.
“Caro, felice di sentirti. ci sono almeno altri 3 testi collegati che possono arricchirti la vita”.
Continuiamo a leggere –
Con amore, Sam
Un appunto, da Muñoz (2021) Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”
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Bibliografia
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— (2019), “Performatività del dominio: una introduzione”, <http://www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it/wp-content/uploads/2020/01/Borghi-liana.pdf> (12/2022).
Ghandi Leela (2015), “Cerimonia di consegna del Premio per la migliore tesi di laurea magistrale e di dottorato sul tema del contrasto alla violenza contro le donne”, Roma, 24 novembre, <https://www.radioradicale.it/scheda/459657/cerimonia-di-consegna-del-premio-per-la-migliore-tesi-di-laurea-magistrale-e-di> (12/2022).
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— (2022), L’arte queer del fallimento, trad. it. Goffredo Polizzi, Roma, minimum fax.
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