Libera Università Ipazia & Il Giardino dei Ciliegi
al Giardino dei Ciliegi – via dell’Agnolo, 5 Firenze
Sabato 14 maggio 2022
ore 15,30
Una città social(ista) nella società capitalista?
con
Aldo Ceccoli: Andare verso a partire da.
Giancarlo Storto: Nella città pubblica si riducono le diseguaglianze e si contrasta la rendita.
Federica Castelli e Serena Olcuire: Città femministe, spazi urbani e desiderio.
Marvi Maggio: Conoscenza, partecipazione e libertà.
Coordina Luciana Brandi
Se la città da sempre è forma di una condizione sociale, come riprogettare un intervento pubblico e collettivo capace di contrastare l’economia di mercato che non assicura l’inclusione e il riconoscimento di tutt* e di ciascun*?
La città è spazio di desiderio per le soggettività incarnate che la ricreano incessantemente con le loro relazioni e attraversamenti. Perciò l’importanza di una partecipazione pubblica fra giustizia sociale e libertà, e di una rappresentanza che non può mai essere pensata come conclusa. Rileggiamo la città nel suo legame con la violenza strutturale ma anche come spazio di immaginazione e creazione di senso collettivi.
Andare verso a partire da
Aldo Ceccoli (Ipazia)
Contestualizzando il tema, parlare oggi della città richiede di collocarla nell’era della globalizzazione liberista che ormai dura da 43 anni (essendo iniziata nel luglio del 1979).
I governi europei, quali che siano, hanno un tratto in comune: si muovono entro i vincoli imposti dagli interessi economici, finanziari, politico-militari del blocco di potere dominante (Ignazio Masulli, il manifesto 9.2.2022). Conseguenza di questa pesante subalternità è che la loro eventuale azione mira solo a mitigare gli squilibri che il sistema stesso provoca continuamente. Perfino la pandemia non è servita a correggere questa subalternità e si è continuato ad obbedire alla logica privatistica liberista imperante.
Anche se si annunciava periodicamente che la mondializzazione avrebbe portato il paradiso in terra, dovunque si guardi la disoccupazione e la precarietà continuano ad essere un dato strutturale. La sofferenza sociale, l’incertezza sul futuro, la rovina di intere economie nazionali, la criminalità economica, e le guerre sono elementi costitutivi delle politiche iperliberiste ovunque prevalenti. Non vi è una globalizzazione buona e una cattiva, il fatto è che la globalizzazione è stata pensata per determinare gli esiti che presenta.
Da quarant’anni dunque è in corso la guerra al lavoro e alla democrazia condotta dalla restaurazione conservatrice liberista. Come conseguenza diretta il potere economico ha le mani libere e i governi si trasformano in “commissari politici” di questo potere. Così si ha una politica sempre più elitaria e antipopolare con il dominio di oligarchie e aristocrazie castali. Se questo erode lo Stato-nazione, tuttavia di fronte all’aggregato composito di bisogni e di popoli, un controllo territoriale va comunque mantenuto: in tal modo lo Stato-nazione non scompare ma risponde a una rete di poteri sovranazionali: economici, finanziari e politici. Non va quindi dimenticato che sono le élite locali a garantire l’applicazione delle politiche decise a livello globale. In questo quadro il compito dei governi e dei sistemi politici locali è quello di giardinieri che, mentre continuano a gestire il regresso sociale, preparano il terreno per attirare investimenti e capitali
La città è il luogo sociale per eccellenza, pertanto, se la società è solcata da drammatiche ingiustizie, lo è anche la città. Infatti nelle aree urbane, grandi e piccole, precipitano e diventano visibili in gran parte le variegate patologie della società liberista. La città da sempre è luogo-specchio dei processi di trasformazione produttiva, politica e civile che attraversano la società. Certo sono emersi nuovi poteri che sostituiscono parzialmente i vecchi, ma la struttura sociale resta la stessa, ampliando semmai i confini del disagio e della marginalizzazione. Vi è una sorta di rispecchiamento tra la militarizzazione dei confini esterni e le costituenti frontiere interne che assumono una configurazione sociale, etnica e razzista di tipo neocoloniale. Questi processi portano a una fusione tra sfruttamento e espropriazione in ambiti diversi: terre, conoscenza, sapere, welfare, spazio urbano, mentre l’accumulazione per sfruttamento continua il suo corso, per cui è urgente che la città, il luogo in ultima analisi dove si svolge la vita reale e quotidiana delle persone, diventi oggetto di pensiero e pratica politica.
L’individuo non è sfruttato solo come lavoratore, ma anche in tutti quei momenti in cui Stato, Regione, Comune rendono disponibili al capitale le risorse locali: per cui agire sui servizi, sui trasporti, sull’uso del territorio, sui piani regolatori, significa operare sulle condizioni locali di produzione: è dunque un agire strategico (O’Connor). Il locale infatti, è spesso la forma con cui il globale si mette al lavoro.
Di fronte alle mutanti forme della marginalità urbana e quindi della periferia, di fronte ai disastri provocati dalla radicale consegna del governo della città nelle mani del mercato, che fare? Trasformare la città in qualcosa di più equilibrato, con architettura di lunga durata e a basso consumo energetico, può bastare?
Per inventare e reinventare abbiamo bisogno di una visione che pensi il mondo in cui viviamo e ne rielabori la percezione. Ben inteso una filosofia non come vuota retorica della rivoluzione ma in grado di non rinunciare a proposte utopistiche tecnicamente fondate, come si augurava Leonardo Benevolo nel lontano 1996. Solo con l’auto-determinazione sociale si può ottenere quei benefici che né il potere statale né il libero mercato potrebbero mai garantire, tanto più – va aggiunto – che Stato e Mercato oggi sono fusi. Elinor Awan Ostrom è stata la prima donna a ricevere il premio Nobel per l’economia, nel 2009, con la motivazione di aver dimostrato come i beni collettivi possano essere gestiti efficacemente dalle associazioni di utenti. Claudio Napoleoni alla domanda “Claudio, dov’è la porta?”, aveva risposto che “non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in un’altra cosa, ma si tratta di ampliare, nella massima misura possibile, la differenza fra società e capitalismo”, non identificando l’essere umano con la sola razionalità economica.
L’intima relazione tra sviluppo capitalistico e urbanizzazione si ha nel nesso tra rendita immobiliare e rendita finanziaria. Non si tratta di concentrarsi solamente sul carattere speculativo della finanza. Quel che caratterizza il presente sono da una parte lo sviluppo e la complessità dei depositi finanziari, dall’altra la globalizzazione tanto dei mercati finanziari quanto dell’urbanizzazione. Questi sviluppi hanno reso possibile sia un’estensione spaziale dei circuiti dell’accumulazione che ruotano attorno all’intreccio tra rendita metropolitana e finanza, sia una intensificazione di questo nesso, basti pensare a come i mutui subprime abbiano incluso poveri e minoranze. Qualsiasi ragionamento teso a mitigare le distorsioni del mercato edilizio “s’imbatte nella rendita. La rendita come generatrice di disuguaglianze sociali e di povertà urbane” (Giancarlo Storto).
Così la rivendicazione del diritto alla città è destinata a restare un “significante vuoto” (Harvey) se non diventa un “diritto mirato”, che non può esistere all’infuori dell’individuazione dei suoi soggetti e dalla materiale produzione di cooperazione, uguaglianza e libertà. Il diritto alla città è collettivo più che soggettivo, perché reinventare la città dipende inevitabilmente dalla gestione comune dei processi urbani. In questo senso reinventare il “diritto alla città” implica la rideclinazione della cittadinanza, significa fare i conti con processi di governo, ma soprattutto individuare i soggetti, le filiere di cooperazione sociale, gli istituti politici e giuridici che possono materialmente rendere effettivo quel diritto.
Con la radicale consegna del governo della città nelle mani del mercato i valori dei costruttori e quelli del pubblico non sono sullo stesso piano. Come sanare la separazione tra il vivere e il costruire? Privilegiare il pubblico rispetto al privato significa iscrivere l’idea di città in un progetto generale di società. La riappropriazione collettiva di ciò che il mercato ha espropriato passa attraverso la rielaborazione del nesso tra politica, spazi urbani e corpi sessuati. Lo spazio urbano infatti non è uno “sfondo indistinto del vivere assieme” ma luogo di movimento e di pratiche. Mettere al centro i corpi anziché i dati, il desiderio anziché la paura, le pratiche collettive anziché i dispositivi di sorveglianza, creare alleanze tra i soggetti imprevisti dello spazio urbano liberista e patriarcale, vuol dire risignificare e riappropriarsi della città (Federica Castelli e Serena Olcuire ).
Rileggiamo così la città nel suo legame con la violenza strutturale (la città sessista, la città classista, la città razzista) ma anche come spazio di immaginazione e creazione di senso collettivi. Ma non si può parlare di partecipazione pubblica senza parlare di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà (Marvi Maggio). In uno scenario caratterizzato dallo svuotamento degli istituti rappresentativi, si tratta di non dimenticare che lo spazio della rappresentanza non può essere mai considerato come totalmente concluso. Così ripensare la rappresentanza è un’operazione radicale solo se essa comincia col portare la democrazia ai suoi limiti, uscendo dal campo della democrazia ossificata. Una politica dei diritti si fonda sul riconoscimento dell’interconnessione fra libertà ed uguaglianza. Di conseguenza non si può escludere dalla politica nessuna categoria sociale, né alcun conflitto di poteri, nessun progetto di liberazione. Il problema politico per eccellenza è che si passi dal punto di vista dei diritti limitativi al punto di vista di poteri espansivi che si moltiplicano l’un l’altro.
Da anni si parla di un crescente divario tra ricchezza e povertà; da anni si è messo in evidenza come “ordinamenti e dispositivi spaziali attinenti alla costruzione e gestione della città e del territorio hanno avuto ed hanno conseguenze rilevanti per quanto riguarda le relazioni di integrazione o esclusione, tra ricchi e poveri” (Bernardo Secchi), ma non si è data nessuna risposta poiché – anche in questo caso – a nostro parere non si è formulata la domanda: quale società vogliamo e quindi quale città la rappresenta?
È vero che la consapevolezza dei guasti prodotti non intacca di per sé le centrali operative dell’ordine mondiale liberista; come è vero che confutazioni non sono possibili senza l’ausilio di alternative e che mettere a punto un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello oggi vincente non si inventa di colpo, ma comunque pensare di andare verso qualcosa che restauri una democrazia in crisi, pone il problema di organizzare in modo nuovo e collettivamente, nello spazio pubblico, l’esercizio dell’avere, del potere, del sapere. Ci auguriamo che questo viaggio inizi prima possibile, anzi dovrebbe iniziare subito considerando la barbarie che ci circonda.
Nella città pubblica si riducono le diseguaglianze e si contrasta la rendita
Giancarlo Storto
Con la nascita della città moderna si pone la necessità della regolamentazione.
Un titolo impegnativo. Dimostrare che una città socialista possa trovare spazio in una società capitalista è assai arduo. Elementi a favore di questa tesi possono manifestarsi se vengono attuate, e perseguite con determinazione, politiche pubbliche in grado almeno di ridurre le diseguaglianze nell’uso della città e di risolvere il problema abitativo contrastando le logiche del libero mercato.
Non la pensava così Engels che nel 1872, ne La questione delle abitazioni, scriveva:
Soltanto la soluzione della questione sociale, cioè l’abolizione del modo di produzione capitalistico, renderà nel contempo possibile la soluzione della questione delle abitazioni. […..] gli odierni grandi agglomerati urbani saranno eliminati soltanto dall’abolizione del modo capitalistico di produzione, e quando si sarà dato l’abbrivio a questo si tratterà di ben altro che di assegnare a ciascun lavoratore una casetta in proprietà.
per concludere:
E fin quando sussisterà il modo di produzione, è follia voler risolvere isolatamente la questione delle abitazioni o qualsiasi altra questione sociale che pesi sulle sorti degli operai.
I tempi sono cambiati. È noto a tutti che le considerazioni teoriche di Engels erano dovute in particolare a quanto osservava sulle condizioni abitative delle città inglesi che si andavano espandendosi a seguito della rivoluzione industriale. Nasce e si consolida, con la rivoluzione industriale, la città moderna: da quando la macchina a vapore comincia a essere utilizzata in sostituzione della forza idraulica (legata alla vicinanza dei corsi d’acqua), come sintetizza Benevolo, “i luoghi di concentrazione delle industrie diventano centri di nuovi agglomerati urbani in rapido sviluppo, oppure, sorgendo accanto alle città esistenti, provocano un aumento smisurato della loro popolazione”.
Ho fatto cenno alla nascita della città moderna perché mi interessa evidenziare questo aspetto: la concentrazione di abitanti ha posto all’epoca problemi di organizzazione del tutto nuovi. Le necessità abitative della manodopera insediata venivano risolte dagli speculatori con la costruzione di file di case ad un piano che si espandevano in funzione della domanda dovuta ai nuovi venuti senza nessuna attenzione “se fossero sicure o igieniche, se avessero luce ed aria, o se fossero abominevolmente affollate” (H.M. Croome e R.J. Hammond). In questa prima fase è assente ogni controllo dell’autorità pubblica sull’attività dei privati.
Le conseguenze diventano sempre più evidenti in termini non solo di congestione, ma soprattutto di insalubrità e di diffusione di malattie epidemiche per la mancanza di fognature, di sistemi di smaltimento dei rifiuti e di approvvigionamento di acqua potabile. Del tutto assenti i luoghi di aggregazione e pressoché inesistenti le aree libere mentre la rete stradale, non pavimentata, è ridotta ai minimi termini.
Una situazione che ben presto diventa insostenibile e che spinge le autorità a intervenire, in opposizione ai proprietari terrieri e ai teorici del libero mercato, ponendo limitazioni alle iniziative spontanee dei costruttori. Vengono quindi emanate le prime leggi sanitarie, per l’espropriazione di terreni privati e per favorire l’edilizia popolare. Sono i prodomi di una legislazione urbanistica che avverte la necessità di un intervento delle istituzioni pubbliche nel dare assetto ad una città che non può essere solo il risultato di operazioni a beneficio di proprietari terrieri e imprese edilizie.
Perché la pianificazione urbanistica è utile alle classi più deboli e come si è evoluta la legislazione in Italia
La pianificazione urbanistica presuppone un’idea di organizzazione (o, se volete, di sviluppo) di un determinato territorio e contiene un sistema di regole che devono essere rispettate nelle trasformazioni urbanistiche e edilizie. Soggetto promotore della pianificazione è l’Amministrazione comunale e di conseguenza la regia (e anche la responsabilità delle scelte) è totalmente affidata all’istituzione elettiva.
La pianificazione deve contemperare le esigenze e le aspettative dei diversi ceti sociali e degli interessi che si muovono sul territorio ma ritengo di poter affermare che la pianificazione (la buona pianificazione) sia una garanzia a favore degli strati sociali più deboli. Senza l’intervento pubblico il territorio, le città, sarebbero di esclusivo appannaggio della proprietà fondiaria che realizzerebbe profitti smisurati realizzando dove è più conveniente e con le modalità economicamente più vantaggiose.
Attraverso la pianificazione e la strumentazione urbanistica il Comune decide l’ubicazione delle aree trasformabili, le quantità edilizie ammissibili, le destinazioni funzionali, la compatibilità delle previsioni con l’ambiente e il paesaggio e, soprattutto, decide la dislocazione delle aree a destinazione pubblica (verde e servizi) e dove posizionare le infrastrutture occorrenti. Le conseguenti decisioni sono oggetto di un confronto pubblico: categorie e associazioni, ma anche ogni singolo residente, possono esprimersi nel merito, presentando formali osservazioni se ritengono inappropriate o insufficienti o lesive dei propri interessi le scelte operate dall’Amministrazione.
Quale è, in estrema sintesi, la situazione della pianificazione in Italia? La legge urbanistica fondamentale è ancora quella del 1942. Una buona legge nonostante il periodo in cui fu emanata. In seguito, per più di tre decenni, il quadro legislativo è andato evolvendosi in senso progressista. Le norme sono state migliorate e rese più efficaci, i comuni hanno visto aumentare le possibilità di indirizzare e controllare l’attività dei privati e nuove leggi sono state varate a integrazione della legge urbanistica (anche se i tentativi di una legge di riforma che ridimensionava fortemente la rendita, proposta dal ministro Fiorentino Sullo, fu contrastata dalla DC sino all’emarginazione politica dello stesso Sullo, ancor prima di arrivare in Parlamento).
Mi limito soltanto a citarne le principali, peraltro note a tutti:
- la legge per la casa (1971), approvata dopo il grande sciopero generale del novembre 1969 promossa dai sindacati proprio sui temi della casa e dell’urbanistica, che ha finanziato l’edilizia pubblica e consentito l’esproprio a prezzi agricoli;
- l’equo canone (1978) che ha sottratto alla contrattazione proprietario-inquilino la determinazione del canone;
- la legge Bucalossi (1977) che ha introdotto, tra l’altro, l’onerosità della concessione facendo partecipare i privati alle spese per le urbanizzazioni occorrenti.
Due provvedimenti in particolare danno sostanza alla città pubblica:
- la legge 167 del 1962 che ha consentito ai comuni, grandi e piccoli, di dotarsi di vaste aree espropriate su cui poter realizzare l’edilizia residenziale pubblica e l’edilizia agevolata (abitazioni in proprietà a costi convenzionali e con il contributo statale);
- Il decreto sugli standard del 1968 che ha obbligato i comuni a reperire, per ciascun abitante insediato o da insediare in base alle previsioni del piano regolatore, una quantità di mq per verde, scuole, parcheggi e servizi urbani e di quartiere.
Il processo riformatore si interrompe alla fine degli anni Ottanta: il libero mercato trionfa e la rendita si riappropria dei meccanismi di crescita e trasformazione urbana
Dalla metà degli anni Ottanta si assiste a decisivi cambiamenti nel clima politico e culturale che si ripercuotono in modo manifesto sul processo riformatore. Sono gli anni di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, entrambi fautori di riforme economiche che hanno la propria matrice ideologica nel liberismo pervicacemente impoverito di regole e nel costante conflitto con le organizzazioni sindacali.
In Italia cresce l’insofferenza verso l’imposizione fiscale (manifestazione di Torino contro il fisco del 23 novembre 1986), viene approvato il primo condono edilizio e, più in generale, si estende l’avversione verso regole e procedure ritenute ostacoli che impedirebbero il dispiegarsi di energie imprenditoriali ritenute irrinunciabili per favorire la ripresa economica.
L’ideologia liberista trova attenzione e ascolto anche nei partiti di sinistra ed è proprio nel governo del territorio che trova concrete applicazioni. Si fa strada l’urbanistica contrattata e la definizione venne coniata da Vezio De Lucia proprio per la vicenda fiorentina della variante Fiat-Fondiaria: 186 ettari acquistati dalla Fondiaria con l’obiettivo di realizzare oltre 4 milioni di mc per residenze e attività terziarie (il prg destinava l’area a parco territoriale) e 32 ettari di proprietà della Fiat che aveva deciso di trasferire altrove gli stabilimenti di Novoli valorizzando l’area con destinazioni più redditizie. Il gruppo consiliare del Pci, nel 1985, aveva votato contro ma in seguito, vinte le elezioni, condivise l’iniziativa. La telefonata di Achille Occhetto del 28 giugno 1989 interruppe l’approvazione della variante. Solo momentaneamente, tant’è che oggi le aree risultano in larga misura urbanizzate e trasformate.
L’urbanistica contrattata diventa pratica diffusa soprattutto nelle grandi città. A Milano in particolare il piano si astiene nel dettare regole e si limita a formulare indirizzi per poi accogliere e valutare le proposte dei privati.
Un cambiamento inaccettabile: si rinuncia alla pianificazione che ha il compito di contemperare e portare a sintesi interessi anche divergenti dei vari gruppi sociali (ma sempre salvaguardando i bisogni essenziali dei ceti deboli) per assumere come interlocutori privilegiati gli operatori immobiliari e il capitale finanziario. Ha scritto Paolo Berdini: “Aver ridotto un prodotto complesso dell’attività umana, come le città, a una visione economicista sta producendo effetti devastanti”.
È quasi superfluo ricordare il contributo decisivo in questa direzione dei governi a guida Berlusconi. Dopo i condoni, anche il piano casa. A seguito di un accordo Stato-regioni, queste ultime (con poche eccezioni, tra cui la Regione Toscana) hanno consentito incrementi di volumetria in deroga agli indici edificatori previsti dai piani regolatori. Si andava realizzando di fatto, come ho già avuto modo di osservare, un “accordo tacito quanto scellerato: agli investitori capaci di influenzare la politica le grandi operazioni e gli interventi urbani più rilevanti, alla gente comune regali in volumetrie e tolleranza per le costruzioni abusive”.
Più recentemente, gli interessi speculativi si vanno concentrando verso la parte storica delle città. Gli insediamenti ai bordi della città costruita vanno diminuendo in evidente relazione alla drastica riduzione di domanda di nuove abitazioni in ambiti periferici come conseguenza della costante riduzione di abitanti nelle grandi città.
Le parole d’ordine diventano quindi “rigenerazione urbana”. Ne parlano tutti, in ogni occasione, anche con riferimento al PNRR, tralasciando però di declinarla. Al soddisfacimento delle aspettative degli abitanti, che dovrebbero essere i beneficiari delle operazioni e che, al contrario, rischiano di essere coinvolti in processi di allontanamento a seguito della maggiore valorizzazione degli immobili, nessun cenno. Il dibattito e le normative sinora emanate dalle regioni si concentrano sul come rendere più spedite le procedure approvative e sulle premialità da concedere agli operatori, soprattutto in termini di incrementi di volumetria.
A Roma si chiede l’indifferenza funzionale in modo che siano i proponenti a decidere le destinazioni d’uso; a Firenze, come denuncia Ilaria Agostini, si tramuta il restauro in ristrutturazione edilizia ammettendo interventi più invasivi.
Il disegno di legge unificato all’esame del Senato sulla rigenerazione urbana consente ai privati di intervenire direttamente: una modalità di intervento affidata al loro protagonismo concedendo la possibilità di demolire e ricostruire singoli edifici anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, senza neppure ancorare tale facoltà a parametri dimensionali o qualitativi.
L’irrisolto problema abitativo. In controtendenza il caso di Berlino
Nel campo dell’edilizia residenziale pubblica è l’indifferenza al problema il dato che emerge in maniera evidente. Negli ultimi venti anni del secolo scorso di edilizia pubblica se ne è costruita in quantità sufficiente, impiegando nel periodo risorse prossime ai venti miliardi di euro con punte annuali di 1,5 miliardi. A partire dall’inizio degli anni 2000 il problema è di fatto scomparso nell’agenda politica. Ritengo che ciò sia dovuto anche alla convinzione che l’alta percentuale di alloggi in proprietà abbia fatto ritenere il problema marginale. Eppure il disagio abitativo è ancora largamente presente nel Paese: sono circa 650mila le domande validate per accedere all’edilizia residenziale pubblica in un contesto che registra più di 2 milioni di famiglie in povertà assoluta (di cui 43 per cento in affitto e 20 per cento proprietarie di alloggio gravato dall’accensione di un mutuo).
Fortemente sottodimensionata è l’offerta di alloggi in affitto i cui canoni incidono in maniera rilevante sui bilanci delle famiglie: la spesa media si attesta, rispetto al reddito, al 22,7 per cento ma per il quinto della popolazione con redditi più bassi l’incidenza segna il 34,6 per cento.
Sul patrimonio pubblico, pari al 4 per cento del complessivo stock residenziale (tra i più bassi dei paesi europei), pesa la responsabilità della politica che si dimostra incapace ad assumere decisioni per portare a soluzione i tanti problemi che condizionano la gestione da parte degli istituti case popolari e quindi, paradossalmente, si preferisce alienare gli alloggi già di gran lunga inadeguati per quantità rispetto al fabbisogno: negli ultimi anni il numero di alloggi costruiti varia tra le 4.000 e le 9.000 unità mentre quelli venduti tra 10.000 e 13.000 unità.
E certamente la scarsa quantità di edilizia sociale (ben diversa per caratteristiche rispetto a quella pubblica) realizzata o in corso di realizzazione, peraltro non disciplinata da una normativa che selezioni la domanda in base a prefissati requisiti e definisca le modalità di immissione nel mercato, non può costituire una alternativa con la funzione di calmierare le distorsioni oggi presenti.
A Berlino si sperimenta una strada alternativa. La condizione è particolarmente grave per il costante incremento di popolazione che alimenta una domanda di alloggi in affitto a costi accessibili (la percentuale dell’affitto è pari all’85 per cento, in Germania 60 per cento, in Italia la proprietà, dati 2019, raggiunge il 78 per cento). Con il referendum consultivo del 26 settembre 2021 è stato chiesto se si riteneva opportuno espropriare le società immobiliari con più di 3.000 appartamenti a fronte dell’erogazione di un risarcimento e la popolazione si è detta favorevole per il 56,4 per cento. Si è in attesa di una legge che trova legittimità nell’articolo 15 della Costituzione che così recita:
“La terra, le risorse naturali e i mezzi di produzione possono, ai fini della nazionalizzazione, essere trasferiti alla proprietà pubblica o ad altre forme di impresa pubblica da una legge che determina la natura e l’entità del risarcimento”.
In precedenza il governo dello Stato di Berlino aveva adottato un provvedimento per stabilire un tetto all’affitto (pari a 9,80 euro/mq con progressiva riduzione), decisione annullata dalla Corte costituzionale (15.4.2021). Ma anche a Vienna qualcosa si muove: ogni nuovo complesso immobiliare che realizza più di 5mila mq (50 appartamenti) deve riservare i 2/3 al canone calmierato (5 euro/mq).
La difesa della città pubblica e gli interventi nelle periferie urbane
Antonio Cederna, all’inizio degli anni Settanta, formulò per Italia Nostra una splendida definizione per l’urbanistica: “quella disciplina moderna per eccellenza la quale, unendo cultura, tecnica e impegno politico, ha per fine di assicurare condizioni umane di vita associata, di indirizzare nell’interesse pubblico gli sviluppi edilizi” e di controllare a vantaggio di tutti le trasformazioni sempre più rapide cui è sottoposto l’ambiente dell’uomo.
Ecco, questo dovrebbe essere il compito dell’urbanistica e in molti casi, in passato molto più che nel presente, è stata esercitata e applicata con queste finalità. In passato, in nome della buona urbanistica si sono aperte rivendicazioni ovunque, nelle grandi città ma non solo: per i servizi, per il verde, per l’edilizia residenziale pubblica. In sintesi: per un ambiente urbano e per una qualità dell’abitare che venisse sottratta alle logiche della speculazione e della rendita, quest’ultima la maggiore responsabile della crescita distorta nelle zone di più recente espansione come nelle mutazioni delle aree centrali. Preceduto da una forte mobilitazione a Torino in cui la Fiat richiamava forza lavoro senza porsi il problema alloggiativo, lo sciopero nazionale del novembre 1969, che ho prima ricordato, non soltanto era motivato dal problema delle abitazioni non risolto soprattutto nelle maggiori aree urbane, ma aveva al centro delle rivendicazioni anche “l’emanazione di una nuova legge urbanistica che deve regolare” – così era scritto nella piattaforma – “il regime delle aree urbane attraverso il diritto di superficie e l’esproprio generalizzato”.
Oggi l’urbanistica non è vista come strumento per migliorare la qualità dell’abitare, per rendere più vivibili le città, per ridurre congestione e inquinamento. È il più delle volte considerata responsabile di aver prodotto un coacervo di norme e disposizioni oltremodo complicate e di difficile e controversa applicazione che soffoca singoli cittadini e promotori di impresa. Esemplificativo il caso della Regione Emilia Romagna, per molti decenni all’avanguardia dell’urbanistica italiana, che ha emanato una legge (n. 24 del 2017) fondata su “accordi operativi” negoziati fra amministratori e operatori privati. La sola eccezione è della Regione Toscana (n. 65 del 2014): grazie all’assessore Anna Marson è stata approvata una buona legge e per la prima volta sono state inserite norme severe per contrastare il consumo di suolo (ma anche questo provvedimento subisce ripetuti tentativi per attenuarne contenuti ed efficacia).
Occorrerebbe riflettere di più su questo drastico decadimento della cultura urbanistica e sulle responsabilità che hanno portato all’attuale situazione. Voglio comunque concludere in positivo.
Nonostante tutto, resta alta l’attenzione e la partecipazione delle associazioni e dei comitati sulle decisioni che riguardano il territorio e una presenza attiva di abitanti è registrabile in molti quartieri e aree urbane. Non soltanto su questioni legate all’ambiente e all’ecologia, ma anche sulle trasformazioni che incidono sull’assetto urbano. Cito tre questioni che meritano un impegno forte e costante:
- il contenimento del consumo di suolo (il disegno di legge proposto dal ministro Catania, Governo Monti, è impantanato da circa dieci anni nelle commissioni parlamentari con la disponibilità dei partiti a pervenire ad una sintesi che nel tempo si va riducendo);
- la difesa della città storica (la nuova frontiera, come si è detto, della speculazione e degli affari immobiliari);
- La riqualificazione delle periferie (molti studi e ricerche sono ora disponibili e si ragiona giustamente di periferie al plurale o meglio di condizioni periferiche, ma da parte dello Stato ancora troppo poco viene concretamente avviato rispetto all’importanza del problema: migliorare l’ambiente urbano e ridurre le distanze dal centro equivale a ridurre le diseguaglianze nell’uso della città e le differenze nella qualità insediativa presenti tra aree centrali e aree periferiche).
Sono sicuro che i presenti e chi ci sta ascoltando non sono disponibili a rimanere inerti e a rinunciare a battaglie di civiltà. “Il diritto alla città”, come diceva Henri Lefebvre, deve essere per tutti.
Città femministe, spazi urbani e desiderio.
Federica Castelli e Serena Olcuire
Questo testo si situa in continuità rispetto a un percorso di riflessione avviato già da qualche anno sulla relazione tra generi e città, tra pratiche femministe e spazi urbani. Rappresenta un ulteriore passaggio, tra aggiunta e mutamento, di un percorso molto più ampio, e soprattutto collettivo, che ha potuto rimettersi in gioco in occasione del seminario permanente “Donne, corpi, territori” organizzato dal Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino, dal Centro Zabut e da Non Una di Meno Palermo, nella primavera del 2021. Un incontro online, così come i tempi recenti possono permetterci, ma che ci ha dato l’occasione per mettere a tema nuovamente la riflessione condivisa che ci ha accompagnato negli ultimi anni. Un incontro che, in questo senso, può dirsi ancora politico, perché ci ha nuovamente chiamate a interrogarci, a metterci in gioco, e a rimestare i pensieri già sedimentati. Un’occasione per un pensiero collettivo, a partire da un’intuizione e una proposta (che non è solo teorica ma vuole essere politica) che abbiamo sentito di condividere. Si tratta di una riflessione di cui non rivendichiamo completamente la maternità, poiché è nata dall’incontro con altre attiviste e ricercatrici, all’interno di spazi di pensiero e azione politica collettiva. Una riflessione che, seppure prende le vie della scrittura, nasce in dialogo con altre nelle case, per le strade, nelle assemblee, in una sovrapposizione di spazi e relazioni (Belingardi et al. 2019). Abbiamo sempre inteso il nostro lavoro comune come l’occasione per una pratica tra attivismo e ricerca, che contamina gli spazi dell’accademia, disarticolandone le partizioni disciplinari, e mette al centro il nostro desiderio, i nostri corpi, le nostre urgenze politiche. Siamo state mosse da un bisogno, che proveniva dalle urgenze della nostra quotidiana esperienza urbana, e che ha trovato nelle pratiche femministe parole e strumenti per dirsi. A partire da questo radicamento nei nostri vissuti di ricercatrici e attiviste femministe, donne, cisgender, bianche, abbiamo sentito l’urgenza di rileggere gli spazi urbani nel loro legame con la violenza strutturale del patriarcato, ma anche in quanto spazi di immaginazione e creazione di senso collettivi. Abbiamo sentito l’urgenza di immaginare una città (trans)femminista e di ripensare lo spazio pubblico a partire da una prospettiva incarnata e sessuata, consapevoli di come parlare di spazio sia parlare di politica e di come a sua volta questo nesso tra spazio e politica si articoli a partire dai corpi: i corpi che attraversano, costruiscono e significano lo spazio attorno a loro; i corpi che, immediatamente e imprescindibilmente, sono già politici (Butler 1996 [1993]; 2017 [2015], Cavarero 2003; 2014).
I femminismi ci hanno insegnato a pensare i soggetti come soggettività incarnate, non più presi nella dicotomia artificiale fra mente e corpo, non più neutri, ma con una storia legata al loro essere sessuati e alla significazione di genere che a quel sesso di volta in volta viene attribuita all’interno della società; corpi sempre in relazione: all’ambiente e ai soggetti attorno a loro. Le pratiche femministe ci hanno mostrato che i corpi non subiscono solo il potere e i suoi dispositivi, ma che essi sono già politici; che i corpi, le esperienze, i vissuti sono l’elemento a partire dal quale ripensare la politica fuori dai dettami patriarcali, senza annullare, cancellare, silenziare le differenze, senza sussumere, creando alleanze contingenti e incarnate (Castelli 2015). Parlare di come i corpi vivono e interagiscono con lo spazio urbano, quali possibilità esso lascia aperte ai soggetti, apre alla politica.
Per politica non intendiamo la sola dimensione istituzionale, ma un piano più ampio, che ci investe in quanto esseri umani, e che ha a che fare con ogni volta che assieme, collettivamente, proviamo a cambiare il mondo con le nostre riflessioni, le nostre azioni, le nostre pratiche (Arendt 2004 [1954]). Politica, in questo senso, non coincide con il potere e deborda le istituzioni, si radica nelle pratiche, nelle alleanze, nei corpi (Diotima 2009, Libreria delle donne di Milano 1987, Rivolta Femminile 1974). Da questa prospettiva lo spazio non è più teatro, sfondo indistinto del vivere assieme, né è solo superficie neutra, data, misurabile e organizzabile. Non è più quel piano omogeneo a cui la metafora della sfera, nello slittamento (per nulla neutrale) tra spazio pubblico e sfera pubblica come dimensione della collettività, vuole alludere. Per inciso, non ci troviamo in una sfera: non siamo punti alla stessa distanza dal centro, non godiamo tutti delle stesse possibilità di azione e parola politica. La sfera ha un limite esterno, che definisce un noi e un loro: produce esclusione e neutralizza le differenze al suo interno. Così facendo intensifica le disuguaglianze e produce oppressione. In quanto femministe rifiutiamo questa immagine della dimensione collettiva e guardiamo allo spazio pubblico per quello che è: smagliato, conflittuale, non pacificato, attraversato da linee di potere, conflitti, demarcazioni ed esclusioni (Bourdieu 2015 [1993], Castelli 2019, Sassen 2015 [2014]). Proprio per questo abbiamo bisogno di ripensare lo spazio pubblico secondo una prospettiva incarnata e sessuata, aiutate da un approccio intersezionale (Crenshaw 1989), che ci aiuti a individuare le linee di potere che lo attraversano, chiudendo o aprendo spazi di libertà per i soggetti al suo interno, producendo inclusione o esclusione, privilegi o oppressione, opportunità o invisibilizzazione. In base a queste linee alcun* di noi sono “ospiti” nello spazio pubblico. Altr* sono invisibili. Altr* ancora sono indesiderat*. Nel nostro caso di donne cisgender, non razzializzate, molto precarie ma di classe media, ripensare lo spazio pubblico a partire da questa prospettiva ci ha permesso di intravedere quegli elementi simbolici e materiali che limitano la nostra esperienza della città e rendono lo spazio urbano uno tra i dispositivi della violenza strutturale che il patriarcato agisce sulle donne, siano esse cis o trans: la dicotomia tra pubblico e privato, la marginalizzazione e l’esclusione che da esse discendono, l’educazione allo spazio che riceviamo fin da bambine, che porta a quella che è stata definita “l’interiorizzazione della recinzione” (Guillaumin 2020 [2016]) (perché le strade sono pericolose e si sa, il posto più sicuro per noi donne sono le quattro mura di casa, dove è anche – stando allo spaventoso numero di femminicidi degli ultimi anni – più probabile che qualcuno dei nostri conoscenti ci maltratti, abusi di noi, ci minacci, ci stupri, ci uccida); le retoriche securitarie, vittimizzanti, razzializzanti e sessiste che regolano lo spazio urbano e i nostri comportamenti all’interno di esso; la trasformazione degli spazi pubblici tradizionali in luoghi di consumo (o a cui è possibile accedere in quanto utenti e consumatrici); la sottrazione di spazi collettivi e autogestiti delle donne, e molto, molto altro.
Osserviamo in questi anni il rinascere di una certa attenzione nei confronti di uno sguardo di genere sulla complessità dell’urbano, nonché verso la possibilità di politiche urbane esplicitamente gender-riented: si tratta di locuzioni che stanno entrando, con un certo successo, nel discorso pubblico contemporaneo. Tale attenzione è da considerarsi un piccolo ma notevole risultato, frutto del lavoro di tante: nonostante venga frequentemente ignorato o omesso, ad esempio, i movimenti femministi italiani hanno svolto un ruolo importante nella ridefinizione di alcuni concetti chiave del progetto urbano in Italia negli ultimi decenni: gli standard urbanistici e la microfisica della cittadinanza, entrambi interpretabili nel contesto dell’etica della cura; le politiche dei tempi urbani, volte alla conciliazione di attività lavorative e attività di cura (Custodi et al. 2020). In Europa, poi, continua a diffondersi il concetto di gender mainstreaming, che risale agli anni ‘90 e inquadra una serie di politiche che ambiscono essenzialmente a garantire l’uguaglianza di genere in ogni campo dell’azione pubblica e politica. Nonostante tali politiche, nelle loro differenti declinazioni territoriali, si muovano su un terreno scivoloso, sia in termini lessicali rispetto al concetto di “genere” che in termini di obiettivi da perseguire (Custodi et al. 2020), anch’esse contribuiscono a dimostrare il progressivo interesse nei confronti di questi temi. Dalla fine degli anni ‘90, inoltre, è stata dedicata una certa attenzione alla possibilità di una progettazione e una pianificazione che fossero modulate sui desideri e sui movimenti della moltitudine di corpi diversi che abitano le città, cominciando a proporre termini come ‘diversità’ al centro della riflessione sulla convivenza nello spazio urbano. ‘Diversità’ implica questioni di genere, età, orientamento sessuale, provenienza geografica, comportamenti e stili di vita, rivelandosi così un termine multisfaccettato che ci permette di evidenziare una domanda fondamentale per chi, come noi, fa propria la prospettiva del transfemminismo intersezionale: quale diversità è accettabile? L’impressione è che la diversità sia accettata nella misura in cui può essere considerata una risorsa umana da mettere a valore, generando un’inclusione delle differenze che promuove una visibilità che «invisibilizza le diseguaglianze economico-sociali che invece intersecano e permeano la diversità di alcuni corpi» (Casalini 2016: 86). Un esempio evidente, in questo senso, è quello delle forme di gestione dello spazio pubblico che gravitano intorno alla dicotomia decoro/degrado, concetti in nome dei quali soggetti poveri o marginali (migranti, homeless, mendicanti, sex worker ecc.) vengono rimossi dagli spazi pubblici maggiormente attenzionati da comitati di quartiere, stampa locale o gruppi di cittadini che hanno tempo ed energie da investire nella “pulizia” del proprio quartiere (Pitch 2013, Pisanello 2017, Bukowski 2019).
Nel caso dei corpi delle donne il doppio binario è particolarmente lampante: nello stesso spazio pubblico è possibile esporre corpi femminili ipersessualizzati (seminudi, ammiccanti, ‘maggiorati’ dal ritocco fotografico) su manifesti per la promozione di prodotti commerciali, mentre la vista dei corpi delle sex worker che vi lavorano è considerata indecente. Doppio binario che viene legittimato e rafforzato sul piano delle politiche, ulteriormente più problematiche nel passaggio dalle ordinanze al Daspo urbano (Olcuire 2022): continuiamo a considerare alcuni corpi oggetti del diritto, da allontanare o rimuovere in nome di altri corpi, soggetti portatori di diritti (Simone 2010). Altri esempi della ‘diversità’ accettata sono quelli legati alla strumentalizzazione dei corpi delle donne per la legittimazione di politiche securitarie. Questo meccanismo si attiva incessantemente e con diverse sfumature di esplicitazione: tra le più opache, c’è la tendenza a supportare una percezione del rischio delle donne non necessariamente connessa a un pericolo effettivamente esperito in qualche forma ma anzi spesso generata da pregiudizi, come l’alta presenza di migranti in un certo quartiere o di sex worker su una strada, creando delle ‘zone rosse’ fortemente sconsigliate alle donne, cosa che tra i vari livelli di problematicità comporta in primo luogo rendere effettivamente meno sicure le zone in questione, diminuendo il numero di presenze e in particolar modo di persone di genere femminile (Olcuire 2019); ma le forme più evidenti di tale strumentalizzazione sono quelle che si innescano dopo un evento particolarmente drammatico, o che ha semplicemente riscosso una risonanza mediatica significativa.
Riportiamo brevemente, qui di seguito, un evento che nel 2018 ha visto ancora una volta il corpo di una donna al centro del conflitto urbano, emblematico per il tipo di reazioni che ha scatenato. Una ragazza di sedici anni, Désirée Mariottini, viene trovata morta per overdose in uno stabile abbandonato del quartiere romano di San Lorenzo; l’autopsia rivela che, prima di morire, è stata violentata da quattro uomini di cittadinanza nigeriana, senegalese e ghanese. Nei giorni successivi si susseguono le seguenti reazioni: l’allora Ministro degli Interni Salvini rilascia una dichiarazione in cui suggerisce la connessione tra la morte della ragazza e il fenomeno delle “occupazioni abusive”, annunciando un piano di sgombero e promettendo di “tornare con la ruspa”. La sindaca Raggi risponde sui social network minacciando un’ordinanza per il quartiere che vieterà il consumo di alcolici in strada dopo le 21 e intensificherà i controlli della polizia. Il segretario di Forza Nuova Roberto Fiore replica10 annunciando che organizzerà una passeggiata per la sicurezza nel quartiere, inneggiando a una protesta che “spazzi via la vergogna dello spaccio e di extracomunitari assassini e stupratori”, garantendo che il partito sarà “sempre più presente nei quartieri popolari per proteggere i romani e le loro figlie”. L’attenzione viene distolta dai responsabili dell’abbandono dell’immobile e delle conseguenti condizioni in cui questo verteva. Al contrario, vengono accusate le pratiche di occupazione abusiva, vengono annunciate misure per ripristinare il decoro e viene sbandierata la necessità di proteggere le donne (individuando la minaccia principale alla loro sicurezza negli “extracomunitari”).
Dal punto di vista spaziale, la ruspa apre la strada – simbolicamente e materialmente – ai nuovi investimenti speculativi immobiliari nel quartiere; l’ordinanza contribuisce a scoraggiare l’uso dello spazio pubblico, ignorando il fatto che la sua sicurezza passi anche e soprattutto per il suo presidio; le frange di estrema destra impongono una presenza minacciosa e violenta nei confronti dei migranti. Guardare alla relazione tra donne e spazi urbani da una prospettiva intersezionale non può esimersi dunque dal considerare l’alto rischio che l’uso di alcuni termini slogan, come appunto diversità o genere, nasconda politiche escludenti nei confronti di tutte quelle diversità che ci mettono più a disagio e che spesso corrono sugli assi della classe o della razza. I corpi delle donne sono così ammessi nello spazio pubblico finché si tratta di corpi femminili bianchi, nativi e borghesi (in termini di collocazione sociale e di comportamento), godendo di una certa rispettabilità vulnerabile che giustifica la necessità di difenderli. Una necessità che viene meno non appena i corpi in questione sono razzializzati o, come nel caso delle sex worker, escono dai confini dei comportamenti ritenuti appropriati, convertendosi in oggetti di violenta demonizzazione per la condotta propria o, a specchio, per quella altrui.
Per evitare i rischi sopra esplicitati, è a nostro parere fondamentale che la formulazione di politiche urbane “di genere” prenda le mosse dalle pratiche femministe, cominciando da quelle che invadono lo spazio pubblico. L’apparire inatteso dei corpi delle donne (come quella dei corpi freak e queer) crea un corpo collettivo che produce spazi di resistenza creativa nei quali rovesciare le norme dominanti. Usando un’espressione di Rachele Borghi (2009, 2012, 2014) possiamo parlare di corpi come strumento di militanza, strumenti performativi di contaminazione dei luoghi e di superamento di determinati limiti. I cortei e i presidi che negli ultimi anni hanno attraversato le città di tutto il mondo hanno proposto (e imposto) una costellazione di pratiche che vedevano i corpi denudarsi (come nel caso dell’anasuroma), travestirsi (le ancelle di The Handmaid’s Tale), coordinarsi in coreografie collettive (Un violador en tu camino). Questa nuova centralità dei corpi ci permette di comprendere il rapporto che questi momenti intrecciano con gli spazi urbani, le relazioni e il nuovo senso della politica offerti durante la protesta (Castelli 2015). Marciare per le strade diventa qualcosa di più rispetto alla manifestazione di dissenso, solidarietà o rivendicazione dei cortei tradizionali, poiché si fa gesto performativo in cui si agisce la riappropriazione e la risignificazione di determinati spazi. Un esempio da citare è quello delle marce esplorative, pratica nata a Toronto nel 1989 e diffusasi nei primi anni 2000 in varie città europee: le marce diventano esplorazioni per decostruire le percezioni di insicurezza e per iniziare un percorso di riappropriazione degli spazi che passa, ovviamente, per il loro attraversamento, agito in una dimensione collettiva. In questa direzione possiamo collocare anche le pratiche di mappatura collaborativa, che invece di indicare i luoghi dell’insicurezza lavorano sull’individuazione degli spazi del desiderio, delle reti di sostegno, delle pratiche femministe (Bonu 2019). Altre pratiche invece investono la dimensione monumentale, e quindi simbolica della città, come gli attacchi alla statua di Indro Montanelli a Milano con sversamenti di vernice rossa o rosa e scritte inerenti all’aberrante pratica del madamato perpetrata dai militari italiani duranti il periodo coloniale. O ancora, le azioni di toponomastica femminista: i toponimi permettono di designare i luoghi come parte di un generale sistema di orientamento spaziale, ma hanno anche una funzione commemorativa, un significato politico e ideologico; la toponomastica è, dunque, uno dei primi modi attraverso cui gli spazi assumono un’identità. Considerando che sul numero di strade dedicate a umani, la percentuale di quelle dedicate alle donne si aggira in Italia intorno al 4-7%, è intuibile la portata e l’importanza dell’atto di rinominarle, risemantizzando spazi apparentemente neutri (Dambrosio 2019). Infine, le pratiche artistiche femministe, come quella di Cheap Festival15 che nel 2020, subito dopo il primo lockdown, tappezza una centralissima strada di Bologna con 25 poster rappresentanti lotte femministe intersezionali, esponendo corpi di donne cis, trans e “fuori norma”, da una moltitudine di punti di vista. Cheap titola l’operazione “La lotta è FICA” e sceglie, come sempre, l’effimera dimensione dell’affissione cartacea; effimera, dunque antitetica alla monumentalità, portatrice di una leggerezza che nulla toglie alla radicalità del messaggio, come risulta evidente dalle proteste scandalizzate che ha generato.
È necessario dunque innanzitutto operare un radicale rovesciamento del piano simbolico che accompagna i nostri attraversamenti urbani, spostando il discorso da quello della sicurezza all’autodeterminazione, risignificando l’idea stessa di sicurezza che il patriarcato neoliberista fa calare sulle nostre vite e sulle nostre strade. Non sempre e non solo vittime, le donne sanno stare e agire lo spazio pubblico collettivamente. Non soggetti da difendere, ma soggetti autodeterminati. Nessuna sicurezza che si limiti alla tutela e che produca limitazioni ai nostri attraversamenti (come le famose app che ci dicono quali strade evitare e quali frequentare); telecamere, camionette, lampioni, polizia: lungi dall’essere “soluzioni” a quella nostra atavica e ancestrale debolezza “in quanto femmine”, sono strumenti che rafforzano la nostra estraneità, il disagio, l’esclusione rispetto a uno spazio che è anche nostro. La sicurezza a cui si richiamano i collettivi femministi non è questa, ma si radica nell’autodeterminazione e si costruisce collettivamente: “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”. La città non è un dato statico e non solo un dispositivo dell’oppressione patriarcale, può essere anche spazio di espressione, creazione, reinvenzione; i soggetti la creano e la ricreano incessantemente con le loro relazioni e i loro attraversamenti; la città è contingente e in continuo mutamento. Per questo, inventare pratiche collettive può davvero rovesciare la scena. Mettere al centro i corpi anziché i dati, il desiderio anziché la paura, le pratiche collettive anziché i dispositivi di sorveglianza, creare alleanze tra i soggetti imprevisti dello spazio urbano neoliberale e patriarcale: da queste (e altre) vie passa la risignificazione e la riappropriazione delle strade. Le pratiche di risignificazione e cura agite nello spazio pubblico a partire da queste alleanze sono pratiche che muovono da un sapere, tutto corporeo, che le soggettività ai margini hanno elaborato a partire da i loro vissuti. Una cura che scardina e sposta il piano, e che nasce non in virtù di un nesso essenzialista (donne=cura) ma dai vissuti e dall’esperienza incarnata di lotte, da uno sguardo che muove dal margine che non riconosce ma anzi scompagina l’odierna impalcatura del neoliberismo e l’organizzazione capitalista basata sulla coppia produzione/ riproduzione (Federici 2018, Giardini, Simone 2015, Giardini et al. 2020). Cura non significa spazio pacificato. Cura è anche, e soprattutto, conflitto. È alleanze, presa in carico dello spazio condiviso, responsabilità collettiva (The Care Collective 2021 [2020]). Per questo lo spazio pubblico acquisisce un ruolo costitutivo nelle lotte dei movimenti transfemministi queer: il rifiuto di dismettere la componente conflittuale della lotta si esprime all’aperto, nella sfera del pubblico e del visibile, rivendicando la presenza dei corpi perturbanti e ridisegnando confini e relazioni tra questi e gli spazi che abitano. Spazi che non si limitano a contenere corpi e pratiche, partecipando attivamente a discriminare quali di esse siano legittime o meno, ma che si definiscono al contrario in virtù della loro presenza, diventando embodied spaces, spazi incarnati dai corpi che li disegnano.
Riferimenti bibliografici
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Conoscenza, partecipazione e libertà. L’appropriazione di tempo e spazio e il regno della libertà
Marvi Maggio
Il peso di rendita e profitto
Il processo di urbanizzazione, è generato da molti attori, che agiscono sul palinsesto esistente, il territorio. Fra si essi, purtroppo, oggi rendita e profitto sovrastano tutti gli altri, potendo tra l’altro fare affidamento sull’investimento finanziario, che trova nel settore immobiliare un ambito particolarmente appetibile. Ci troviamo di fronte l’economia capitalistica fondata sullo sfruttamento, l’accumulazione da espropriazione, ma anche sulla sottrazione a livello di realizzazione (vendita a prezzi elevati e non in rapporto con i costi di produzione), e sull’estrattivismo. In questo contesto l’obiettivo è assicurare l’appropriazione di spazio e tempo, che è pratica di libertà, per tutti.
Il problema centrale che dobbiamo affrontare è il potere strutturale del mercato immobiliare sul processo di urbanizzazione: decide quanto e cosa viene prodotto. Lascia strutturalmente senza risposta un vasto settore di domanda abitativa e per spazi pubblici e collettivi, espelle da una città come Firenze un settore sempre più vasto di potenziali abitanti. Sappiamo come il turismo sottragga spazi, basti pensare alla vicenda airbandb, e consenta prezzi incomparabilmente più alti di quelli per le residenza stabile. Anche le università creano pressione sul mercato immobiliare, e le residenze per studenti vanno per la maggiore ora, ovviamente per quelli che possono pagare.
Il problema è strutturale: lo spazio viene offerto non per rispondere ai bisogni sociali di tutti, ma come investimento che deve produrre rendita e profitto. Il settore finanziario spesso approda su questo tipo di investimenti, immobiliari. I fondi alla ricerca di investimenti lucrosi provengono da tutto il mondo e comprendono anche i fondi pensione, che nascono dalla immissione sul mercato del sistema pensionistico, dove la pensione diventa una scommessa.
I beni e servizi sono offerti sul mercato capitalistico, e il settore immobiliare segue questa regola generale, in base alla capacità di spesa, quindi tutti i bisogni non solvibili non trovano risposta. Questo meccanismo diventa inaccettabile in particolare per beni e servizi come l’abitazione, la salute, la cultura, l’istruzione, nei quali il mercato si mostra non solo incapace di rispondere ai bisogni, ma si dimostra criminale, perché sottrae il diritto di vivere in modo soddisfacente a una vasta parte di popolazione mondiale.
Il settore immobiliare è un settore forte del capitalismo contemporaneo e rappresenta fino al 40% dell’attività economica dei paesi capitalistici avanzati. Va notato che nel PIL l’immobiliare pesa con i suoi prezzi spesso gonfiati. Infatti comprendono la rendita che è il prezzo di un bene che non è prodotto e non ha quindi un costo di produzione: con la rendita si paga il prezzo di uso di una parte della terra che è impropriamente appropriata da qualcuno, mentre è un bene comune che appartiene a tutti. L’appropriazione di terra storicamente gronda sangue: basti pensare alle guerre territoriali e alle sofferenze che la sua appropriazione provoca a un enorme settore degli abitanti della terra.
Il ruolo del settore pubblico
Il ruolo del settore pubblico, dello stato nelle sue varie compagini, potrebbe essere quello di governare il mercato, ma a partire dagli anni 80, con il progressivo prevalere del neoliberismo, il contrattacco di classe contro i movimenti rivoluzionari degli anni 70, lo stato ai suoi diversi livelli amministrativi impone con forza l’obiettivo dello sviluppo economico capitalistico, al quale viene aggiunto l’aggettivo sostenibile, che sappiamo quanto sia annacquato dalla sostenibilità non solo ambientale, ma anche economica e sociale interpretata in tono neoliberista. I posti di lavoro diventano la giustificazione degli interventi immobiliari, ma senza guardare a cosa quei lavori producono dal punto di vista materiale: valore d’uso o valore di scambio, beni accessibili a tutti o solo a pochi. E’ davvero giustificabile, con la crisi ambientale in corso, utilizzare risorse e lavoro per produrre, solo per fare un esempio, yacht per magnati e ancora peggio armi e strumenti di guerra? E non sarebbe invece necessario offrire abitazioni, spazi pubblici, beni e servizi per rispondere ai bisogni di tutti? La domanda relativa a che tipo di beni produciamo e che tipo di lavori attiviamo è più che mai decisiva: dannosa e invadente pubblicità, investimenti finanziari, industrie di guerra, giochi per straricchi, burocrazia inutile e dannosa, che invece di salvaguardare paesaggio, territorio e cultura trova gli escamotage per aggirare le regole di salvaguardia della salute, dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, conquistate con tante lotte. Da un altro punto di vista, quello dei lavoratori, si tratta di lavori alienanti, la cui utilità si limita alla produzione di profitto e non di valori d’uso; nella stragrande parte dei casi non offrono soddisfazioni che non siano l’aumento, invero minimo, della capacità di spesa. Mentre al contrario ci sarebbe un enorme bisogno di lavori legati alla cura del territorio, delle persone, degli anziani, dei bambini, nella sanità, scuola, istruzione a tutti i livelli, cultura, spettacoli, arte, biblioteche, parchi, territorio, paesaggio. Invece i posti di lavoro per lo sviluppo capitalistico sono quelli che producono profitto non quelli che rispondono ai bisogni davvero essenziali: l’industria bellica, che oltre a un lauto profitto produce il contrario della vita, cioè morte e distruzione, e purtroppo ora va per la maggiore.
Il problema è che il settore pubblico usa le proprie proprietà non per rispondere ai bisogni sociali ma per produrre profitto: molte residenze di proprietà della regione, dello stato, del comune, avrebbero potuto e dovuto essere tutti destinati ad abitazioni per tutti a prezzi davvero accessibili, come era l’equo canone.
Un altro ostacolo sono le norme in base alle quali lo stato e le regioni danno accesso ai servizi e alle case popolari di edilizia residenziale pubblica: solo a chi non è solvibile perché poverissimo. Si tratta di un approccio tipicamente neoliberista in base al quale solo chi non potrebbe mai accedere al mercato immobiliare, neppure contraendo un prestito o sottoponendosi all’accettazione di spazi ridottissimi o condivisi forzatamente con altri, accede all’edilizia residenziale pubblica. In questo modo il mercato non si vede sottratti potenziali clienti, viene preservato. Il che lo vuole l’UE proprio per non disturbare il mercato e sottrargli clienti. Il mercato si può calmierare solo fornendo una alternativa di qualità alla sua offerta. E questo avviene solo se l’offerta alternativa cattura chi altrimenti si sarebbe rivolto al mercato. Una alternativa che quindi consenta, a chi altrimenti avrebbe, con sacrifici, avuto accesso all’offerta di mercato, di trovare uno spazio di qualità in grado di rispondere ai suoi specifici bisogni. Non più omologazione ma offerta che utilizzando la partecipazione alla progettazione dei futuri abitanti e la flessibilità e trasformabilità degli spazi nel corso del tempo, accompagni l’evoluzione nel tempo dei bisogni e delle soggettività. Nessun controllo dei redditi e patrimoni, ma possibilità per tutti di accedere. Poi l’affitto potrebbe essere graduato con un minimo per chi ha redditi bassi, e fino a un massimo, tipo equo canone, per gli altri. In questo modo si potrebbe usare l’affitto di chi può pagare di più per bilanciare chi paga di meno. Ma l’affitto massimo deve essere come era l’equo canone. Non quello fuori controllo del mercato.
Basta controlli sui redditi. L’ossessivo controllo biennale sui redditi e annuale sull’ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente, cioè su reddito e patrimonio) a cui sono sottoposti gli inquilini delle case popolari di Firenze e dintorni, stabilito dalla legge regionale toscana, fa parte del welfare punitivo che toglie il diritto alla casa in base all’ISEE, con quello che significa in un paese dove solo lavoratori dipendenti e pensionati pagano le tasse per intero. L’ISEE ha lo scopo di controllare il patrimonio, come se il reddito non fosse sufficiente a definire le possibilità economiche di una persona. Al contrario le case popolari dovrebbero essere accessibili a chi ha un doppio reddito in famiglia, il limite dovrebbe essere aumentato, o meglio essere eliminato per l’accesso alle case, se mai usato per modulare l’affitto, con un affitto massimo simile a quello che era l’equo canone. Tra l’altro in questo modo si eviterebbe di concentrare solo persone con redditi bassi, oppure con gravi problemi sociali, che in un contesto in cui molti lavori di manutenzione sono a carico dell’inquilino, rischiano di lasciar decadere l’alloggio. Nei Paesi Bassi negli anni 70 e 80 fino ai 90 l’accesso all’edilizia pubblica era consentito a chi aveva un reddito ben maggiore di quello necessario per accedere all’edilizia residenziale pubblica in Italia. In questo modo si è verificato l’effetto di calmierare il mercato immobiliare per la casa. Inoltre sono diventate edilizia pubblica le case occupate dagli anni 90 in poi ad Amsterdam ampliando le tipologie abitative presenti, e comprendendo le abitazioni con spazi collettivi per l’assolvimento del lavoro domestico: cucina, sala, spazi ricreativi, spazi per il gioco dei bambini (Maggio, 1986). D’altra parte le abitazioni per gruppi di convivenza, le centraal wonen, erano già da tempo parte dell’edilizia pubblica e prevedevano sempre l’obbligo che durante la progettazione fosse ascoltato il futuro utente, visto che lo spazio abitativo da progettare non era preformato ma aperto e innovativo: non spazio per la famiglia nucleare tradizionale e quindi previsto e prevedibile, ma spazio che avrebbe dovuto accogliere nuove relazioni sociali e nuove modalità di assolvere alle funzioni proprie della vita quotidiana (Maggio, 1986).
Va costruita una alternativa, perché altrimenti c’è un percorso obbligato, senza via d’uscita. Il bisogno della casa rende disponibili a pagare tutto quello che si può, incrementabile con il debito, e per questo il settore immobiliare è così in buona salute, e lo è stato anche durante la pandemia.
Il governo del territorio
Invece di rispondere alla domanda sociale sulla città, con l’obiettivo dichiarato di risolvere la crisi economica (perenne), le amministrazioni pubbliche concedono ai proprietari fondiari e ai promotori immobiliari di costruire le funzioni che producono più profitto. Inoltre siccome il mercato immobiliare può essere imprevedibile, e possono cambiare nel tempo le funzioni più lucrose, si arriva anche a concedere un mix di possibili funzioni, magari indicando percentuali per ognuna. Se poi le percentuali cozzano con il progetto di turno, con l’occasione della città occasionale, si possono variare con l’ennesima variante e inoltre, non contenti della flessibilità funzionale pro-mercato, si danno premi di cubatura. Le varianti non dovrebbero essere possibili se non in casi eccezionali, invece diventano la regola tanto che perfino la innovativa legge urbanistica regionale 65 / 2014 indica le varie tipologie e le procedure da seguire per ognuna. Ora per il PNRR torniamo addirittura a parlare di variante automatica, una vera aberrazione. La Valutazione Ambientale Strategica, prevista dalla direttiva europea, e normata da legge regionale (LR 10 / 2010 con modifiche e integrazioni) avrebbe dovuto prevedere e garantire la partecipazione degli abitanti a tutti i piani e programmi, ma la legge regionale ha circoscritto i partecipanti possibili così tanto, da disattendere la speranza di una diffusa democrazia partecipativa, tentata poi con la partecipazione prevista dalla 65 / 2014, la legge Marson.
Il problema è che i piani regolatori (piani strutturali, regolamenti urbanistici, piani operativi) indicano lo sviluppo economico come loro obiettivo, invece della risposta ai bisogni sociali pressanti.
Tra l’altro promuovere lo sviluppo economico (sottinteso capitalista), significa investimenti nelle infrastrutture come il tunnel per l’alta velocità a Firenze, l’aeroporto, che al di là del ruolo vero o presunto di capitale fisso per lo sviluppo economico, consentono di appaltare lavori e quindi di fare girare l’economia. Non servono certo per salvaguardare l’ambiente, ma per inquinarlo, non per rispondere ai bisogni reali ma per rispondere spesso a quelli legati alla capacità di produrre profitto. Ricordiamo che la produzione di cemento è in assoluto una produzione estremamente inquinante, sia che si usi nella nuova costruzione che nel recupero: il cemento va usato quindi con parsimonia, per rispondere a bisogni reali.
Da questo seguire il mercato immobiliare, consegue l’attuale proliferazione dell’affare del momento, lo “studentato” che scivola via dai limiti posti agli hotel, realizzando un hotel che si chiama studentato.
Ed ecco inoltre un proliferare di alberghi di lusso. Il problema strutturale più vasto del capitalismo è che esistono enormi sperequazioni di reddito: nessuno dovrebbe poter investire in case in giro per il mondo fino a che esiste anche una sola persona che ha fame; e nel mondo ce ne sono 811 milioni. Elon Musk ha 240 miliardi di dollari. E questa sarebbe la democrazia del capitale?
Questione abitativa e diritto alla città
Se si guarda al territorio sono necessarie prima di tutto abitazioni di alta qualità e a prezzi bassi per tutti gli abitanti e i potenziali abitanti. Troppi oggi nell’area di Firenze sono esclusi e costretti a trasferirsi all’esterno delle aree che per la loro qualità possono pretendere prezzi elevati. Questa dovrebbe essere la priorità e solo dopo che questa sia assolta, se rimane qualcosa, i luoghi potrebbero essere usati per il turismo.
Esempi di aree dismesse pubbliche che avrebbero potuto risolvere il problema una vola per tutte sono l’ospedale militare in via San Gallo, la caserma in Costa San Giorgio; la caserma Lupi di Toscana. Le case dovrebbero avere un prezzo simile a quello che è stato l’equo canone e non i prezzi da housing sociale, che sono solo di poco più bassi degli affitti di mercato. L’edilizia “sociale”, grazie alle facilitazioni e ai finanziamenti pubblici è un affare più per i costruttori che per i soggetti che vi accedono. Vedi l’esempio delle 20.000 case in affitto (Maggio, 2006, 2008).
Chi ha comperato le aree pubbliche, non importa se singolo imprenditore come nel caso di Lowenstein, o fondi finanziari, oppure immobiliari italiane o di altri paesi, non farà che sottrarre spazio alla vita quotidiana di tutti per offrire case o stanze di lusso in alberghi di lusso ai troppi (la domanda per una città come Firenze è a livello planetario) che possono permettersela. Non importa davvero che chi investe sia italiano o straniero, o un fondo finanziario di cui è difficile definire la provenienza territoriale. Il problema è che ciò che produce sottrae spazio al diritto alla città per la stragrande maggioranza degli abitanti. E non sottrae solo spazio ma anche qualità. Una città che conserva i muri e espelle le vite, non è più una città storica che rinnova il suo valore culturale e sociale, ma tende verso, pur non essendolo ancora grazie alla resistenza, un baraccone vuoto, riempito di inutili beni di lusso e altrettanto inutili vite piene solo di soldi e vuote di cultura e creatività.
La lotta di classe non ha confini, i nemici di classe non devono essere ripartiti in base alla cittadinanza, fanno tutti gli stessi danni al territorio. E’ questo un esempio di libertà negativa di investire e appropriarsi di territorio a discapito di altri. Ma a ben guardare il problema non è solo che non vengano gestiti con accortezza i beni territoriali da parte delle istituzioni, ma soprattutto che il nostro sistema capitalistico genera ricchi in cerca di investimenti lucrosi.
Non si può dimenticare che per eliminare la povertà bisogna eliminare la ricchezza.
A Firenze manca un vero mercato dell’affitto, che non sia di lusso, o che non offra prezzi accettabili solo in relazione a spazio ridotto e frazionato, e insufficiente, come quello per gli studenti a basso reddito. Si arriva al paradosso che gli affitti a Firenze, quando si trovano, sono più alti dei mutui, che sono tuttavia possibili solo se si ha un reddito continuativo, così si è indebitati e chi ha debiti non sciopera.
Appare chiaro che risolvere la questione abitativa toglierebbe lucrosi guadagni a un settore capitalista molto vasto; basti pensare al blocco edilizio che si è mosso con violenza contro le riforme del regime dei suoli e per la casa: la risposta alla domanda posta con forza dalle lotte sociali sulla questione della città è caduta nel vuoto e si è determinato lo scempio che viviamo oggi. Capiamo, guardando la condizione contemporanea, perché la risposta allora è stata così violenta, lo capiamo da quello che hanno ottenuto in cambio: lo strapotere di rendita e profitto sull’intero processo di urbanizzazione. Affari miliardari che drenano enormi quantità di ricchezza (per pochi) da una enorme quantità di persone.
D’altro lato, la casa come servizio sociale offerto dallo stato è stato e rischia di essere una risposta alla questione abitativa stereotipata, predeterminata, fondata su regole sociali spesso sessiste e che ribadiscono l’organizzazione della casa per famiglie nucleari (Maggio, 1986, 1996a, 1996b, 1999, 2002, 2008); la risposta poi ai soli redditi bassissimi e con gravi problemi sociali, ripropone dei ghetti, spesso di scarsa qualità per tipologia edilizia e per localizzazione, l’edilizia residenziale pubblica in luoghi irraggiungibili, separati, al limite dell’urbano.
La soluzione è umanizzare la vita quotidiana, e lottare contro l’alienazione. Liberare spazio e tempo.
Non case popolari di bassa qualità per far in modo che tutti quelli che possono la lascino, ma invece creazione di spazi abitativi con spazi collettivi di grande qualità non predeterminati dallo stato, come un servizio per educare i poveri a stare al loro posto, ma progettati attraverso la partecipazione diretta degli abitanti presenti e futuri, per produrre spazi che rispondano alle differenti esigenze, e anche flessibili per poter seguire le soggettività e i gruppi di convivenza in base alla loro trasformazione individuale e collettiva. Partecipazione e libertà, organizzazione collettiva degli spazi residenziali, dialettica plurima di spazi privati, collettivi, semi pubblici, pubblici.
Il neoliberismo chiede autonomia, ovviamente non nel senso rivoluzionario: autonomo cioè libero dal pericolo dell’integrazione nel capitalismo, ma nel senso di cavarsela da sé; e appena si può, non pesare sul pubblico. Ci vuole invece la vera autonomia. Occorre ricostruire una visione generale in grado di capire i processi nella loro interezza e superare la frammentazione delle lotte, delle visioni, delle forme associative. Partire dal territorio non per rimanere separati ma per connettere comprensione dei processi e lotta per la giustizia sociale, integrando tutti i temi e le sfere sociali. Il capitalismo ha la capacità di frammentare e cancellare le lotte che intendono contrastarlo, quelle presenti e quelle del passato, mentre devasta e sfrutta. Cambia pelle e pratiche incessantemente, riassorbendo tutto quanto può essere utilmente ribaltato a suo vantaggio, ma tiene sempre fermi sfruttamento, espropriazione, disprezzo, devastazione e saccheggio. La complicità non è inevitabile e la felicità si trova dove tempo e spazio vengono liberati e il regno della libertà può finalmente iniziare a espandersi.
Libertà
Ci sono libertà positive e negative, per esempio è negativa la libertà di sfruttare e espropriare e di disporre in privato dei beni comuni di tutti. Le vere libertà sono espresse magnificamente dai bisogni radicali di Agnes Heller: una vita piena di significato; un lavoro pieno di senso; lo studio; il bisogno di tempo libero come liberazione radicale.
“La pratica dell’appropriazione all’essere umano del tempo e dello spazio, modalità superiore della libertà” (Lefebvre, 1973: 160, rivoluzione urbana)“ in pratica il regno della libertà inizia solo laddove termina il lavoro comandato dalla necessità e dalla finalità intrinseca […] Al di fuori di essa (ndr la sfera della necessità) inizia lo sviluppo delle facoltà umane, che è fine a sé stesso, la reale sfera della libertà, che può sorgere tuttavia solo fondandosi su quella sfera della necessità” (Marx. III libro del Capitale, 1970, p. 1468).
Partecipazione: i temi
Partecipazione per la discussione e la decisione collettiva e condivisa.
Sono cruciali i temi da affrontare: che tipo di persone vogliamo essere, in che tipo di città vogliamo vivere, in che modo vogliamo vivere; come, dove, quanto vogliamo produrre ciò che ci serve per vivere. Occorre dare vita a un modo collettivo di gestire i rapporti metabolici con la natura e la produzione di beni materiali, dare forma ad una adeguata concezione mentale del mondo e soprattutto creare un modo collettivo di decidere circa la produzione e riproduzione della nostra natura umana attraverso le pratiche materiali, e la gestione dei commons globali per dare una vita soddisfacente in un ambiente di vita soddisfacente per 10 miliardi di persone sul pianeta terra; è necessario confrontarsi e gestire il cambiamento climatico su base globale.
È necessario affrontare le regole di convivenza, regole, relazioni sociali nel lavoro, nella vita quotidiana; decidere politiche pubbliche, obiettivi, trattare contraddizioni, ingiustizie.
L’obiettivo è la costruzione di rapporti sociali non alienati e di un nuovo rapporto sinergico con la natura.
Noi vediamo gli effetti dei processi spazio temporali: le ingiustizie sociali, in termini di disponibilità di beni e risorse, di servizi e in termini di potere decisionale; il cambiamento climatico, l’inquinamento. Oltre a osservare gli effetti dobbiamo individuare le cause (i processi) per agire su di esse e modificare i processi.
Vanno costruite collettivamente le alternative all’organizzazione economico sociale esistente e quindi l’attivazione di un nuovo motore economico capace di sostituire il capitale.
Tutte le sfere sociali devono essere comprese nel progetto di trasformazione, perché nessuna ha il privilegio da sola di risolvere tutte le questioni: le tecnologie e le forme organizzative; le relazioni sociali; l’organizzazione istituzionale e amministrativa; i sistemi di produzione e i processi lavorativi; la relazione con la natura; la riproduzione della vita quotidiana e della specie; le concezioni intellettuali sul mondo.
Conoscenza per la trasformazione sociale
Conoscenza per la trasformazione sociale, per l’eguaglianza (che non è omologazione, ma diritto alla differenza, gli anarchici dicevano “uguali nella diversità) e la giustizia sociale: “tra la conoscenza e il potere non c’è solo un rapporto di servilismi, ma anche un rapporto di verità. Molte conoscenze sono insignificanti e prive di valore, indipendentemente dalla loro esattezza formale, in quanto non sono in rapporto adeguato alla distribuzione di forze […] Il compito quasi insolubile è quello di non lasciarsi accecare né dalla potenza degli altri né dalla propria impotenza” (Adorno, Minima Moralia, 34). Storia totale (contrapposta alla global history) “una definizione di storia come scienza delle domande generali e delle risposte locali attraverso una osservazione intensa di un problema, un luogo, un avvenimento, un’istituzione, per trarne domande che consentissero di identificare cose rilevanti senza obbligarle nelle semplificazioni del globale ma semmai permettendo una storia comparativa che definisse diversità e non improbabili similitudini o semplificate differenze” (Levi, 2016, 6).
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