Dalla femminilizzazione del lavoro a forme di moderna schiavitù.
Maria Grazia Campari
Propongo alcuni spunti di riflessione.
Dati recenti di fonte INPS certificano una situazione molto difficile sul fronte del diritto al lavoro. Nell’anno 2016 si sono verificati: un crollo dei contratti a tempo indeterminato pari al 9,1% sul 2015, un aumento del 28% nei licenziamenti e una flessione nelle vertenze e nelle cause di lavoro pari al 69% fra il 2012 e il 2016. Le illegalità padronali restano civilmente impunite.
Nel frattempo, la disoccupazione e inoccupazione giovanile si aggirano intorno al 40%: i disoccupati reali sarebbero circa sei milioni e, nella sola Toscana, i posti di lavoro a rischio sono circa ottomila.
Le elargizioni che il Jobs Act ha procurato al padronato dal dicembre 2014 (tra 11 e 17 milioni in tre anni) hanno gravato sulle casse dello Stato, quindi sui cittadini, tuttavia non hanno indotto gli imprenditori a recuperare i ritardi sul capitale produttivo (macchinari e strutture, ricerche per produzioni innovative) ma li hanno ingolositi, tant’è che oggi rivendicano altre erogazioni in termini di detassazione per nuove assunzioni (così Boccia, presidente di Confindustria nella recente assemblea annuale) ed esigono il ripristino dei pagamenti in voucher, cioè senza contratto, ottenendolo lestamente dal governo che aggira in modo fraudolento l’art. 75 della Costituzione.
Inoltre, è allo studio un incremento del lavoro gratuito attraverso l’alternanza scuola-lavoro (poco formativo per gli allievi, ma assai redditizio per le aziende coinvolte) e magari anche con il varo del servizio civile obbligatorio.
La situazione attuale sollecita una riflessione che deriva dalla mia esperienza professionale come avvocata del lavoro attiva per oltre 40 anni nel Foro milanese.
Ho iniziato a praticare a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, sulla base di un diritto del lavoro ancora pre-costituzionale, incardinato sul codice civile del 1942 (piena epoca fascista), che però recava fra le sue regole l’art. 2087, con la previsione dell’obbligo a carico del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, secondo la particolarità del lavoro, adottando le misure suggerite dallo sviluppo delle conoscenze fornite dalla scienza e dalla tecnica.
Una disposizione confermata e ampliata dal 2° comma dell’art 41 Cost.(oggi ignorato in favore dell’arbitrio che si vuole autorizzato dal 1° comma: “l’iniziativa economica privata è libera”), che inserisce la previsione nel contesto sociale, stabilendo la necessità che si privilegi, appunto, l’utilità sociale, quindi la sicurezza, la libertà, la dignità umana.
Non potrebbe essere più distante la legislazione attuale, neoliberista, frammentata, incentrata sulla flessibilità delle “risorse umane”, espressione oggettivante per soggetti assoggettati a logiche mercantili che sono incapsulati in una prospettiva di precarietà negatoria di qualsivoglia diritto nel lavoro; si è fatto il deserto dei diritti cancellando tutte le leggi di attuazione costituzionale varate dalla seconda metà degli anni Sessanta fino agli anni Ottanta del secolo scorso.
A mio parere, la situazione è peggiorata rispetto agli anni che precedono lo Statuto dei Lavoratori perché le disposizioni di legge attuali appaiono formulate in modo da smentire puntualmente i contenuti delle sentenze
costituzionalmente orientate. La smentita si opera per legge, non per le eventuali difformità del decidere. Il complesso di queste leggi crea un ordinamento contro costituzionale.
In epoca precedente all’attuale il lavoro era considerato quale esplicitazione di una contraddizione esistenziale: strumento di costrizione ma anche di espressione di sé, vincolo e contemporaneamente possibile veicolo di affermazione individuale e collettiva.
Costituiva potenziale garanzia di dignità umana di ciascuno, per quanto economicamente svantaggiato, pilastro di un “assetto istituzionale che metta al centro delle relazioni sociali l’operosità umana liberamente scelta” (C. Mortati).
L’art. 1 della Costituzione fa del lavoro il cardine della costruzione istituzionale e il successivo art. 4 ne chiarisce il senso: qualsiasi attività che contribuisca al progresso materiale e spirituale della società, ciò che significa tutto il lavoro necessario alla vita, come hanno precisato le femministe che hanno dato vita all’Agorà del Lavoro di Milano e successivamente ai convegni di Paestum.
Quindi, secondo una logica democratica, le molteplici esperienze lavorative degli ultimi decenni avrebbero dovuto contribuire a creare un quadro istituzionale connotato da una estensione di regole garantiste a tutto il lavoro umano, inteso nel senso più ampio, unico modo di rendere effettiva l’ipotesi preconizzata dai costituenti di “progresso sociale individuale e collettivo” (Lelio Basso citato in “Libertà e lavoro dopo il Jobs Act” di G. Allegri e G. Bronzini, Derive Approdi 2015), attuando “un sistema di garanzia dai rischi della vita associata e di integrale liberazione del cittadino” (ivi)
Come già detto, la smentita a questi obiettivi progressisti viene dalla legislazione contro costituzionale degli ultimi venti anni che trova il suo apogeo nella legge 10 dicembre 2014 n. 183 e nei decreti attuativi, complessivamente una Bibbia della controriforma del diritto del lavoro varato negli anni Sessanta e Settanta.
Mi limito all’esame delle questioni che mi paiono più rilevanti: la qualità e la durata del contratto a forma “comune”, la quantità e qualità dei contratti a forma diversa da quella “comune”, le professionalità acquisite, la quantità della retribuzione.
1.Contratto “comune” a tempo indeterminato
L’intento dichiarato sarebbe quello di introdurre come contratto di lavoro normalmente in uso quello a tempo indeterminato a “tutele crescenti”.
In realtà, questa legge porta a compimento l’opera di distruzione iniziata con la legge 28.6.2012 n. 92 (c.d. riforma Fornero) che pone come asse portante il mercato e svuota di diritti il lavoro.
Lo strumento è l’indebolimento, prima, l’annullamento, ora, per i nuovi assunti e progressivamente per tutti della tutela dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, con la conseguenza di facilitare il ricorso impunito a licenziamenti individuali ingiustificati e arbitrari perché privi di giusta causa o giustificato motivo.
La privazione della tutela reale consistente nella reintegrazione giudiziale nel posto di lavoro è sostituita dal solo obbligo di corresponsione di una esigua mercede: da 4 a 24 mensilità commisurate alla anzianità di servizio; minimi e massimi sono fissi e prescindono dall’entità del danno subito dal lavoratore in seguito al recesso padronale.
La legge rende possibile il licenziamento per motivi inesistenti o futili poiché impedisce l’indagine
giudiziaria sulla proporzionalità fra il comportamento sanzionato e l’entità della sanzione massima, cioè il licenziamento disciplinare.
I soli casi di reintegrazione riguardano i licenziamenti orali, discriminatori, nulli per i quali risulta evidente la difficoltà di fornire prova certa in giudizio.
Non è difficile prevedere l’uso dello strumento espulsivo nei confronti di lavoratori ritenuti poco produttivi perché malati, infortunati (magari per nocività ambientale), assenti per motivi di cura famigliare, attivi sindacalmente.
La riflessione che si faceva a proposito della controriforma Fornero -rimosso l’architrave della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché per timore non sarà rivendicato- viene superata dalla novella renziana che provvede a togliere ogni tentazione di audacia eliminando del tutto i diritti.
Infatti, è consentito il demansionamento unilaterale del dipendente (prima fulminato di nullità dall’art. 13 Statuto dei Lavoratori) per generici motivi di riorganizzazione addotti dall’imprenditore, con grave incidenza negativa sulla professionalità e sulla dignità stessa della prestazione.
E’ la futilità del pretesto unilaterale oggi consentito che inquieta, poiché per casi seri come la sopravvenuta inidoneità al lavoro, la gravidanza e il puerperio, già era prevista la possibilità di consensuale assegnazione a mansioni inferiori in alternativa al licenziamento.
L’inquietudine trae origine dalla violazione palese dell’art. 35 della Costituzione,là dove prevede l’obbligo di formazione e di elevazione professionale del lavoratore.
Altro motivo di deterioramento qualitativo è l’introduzione della video sorveglianza tramite dispositivi elettronici che sottopongono il lavoratore a monitoraggio costante durante la prestazione lavorativa e anche oltre, in tal modo annullando la norma di civiltà espressa nel divieto dell’art. 4 Statuto dei Lavoratori.
Anche il contratto di lavoro in somministrazione, quello che consente all’imprenditore di ricevere da agenzia autorizzata personale da adibire a qualsiasi mansione inerente il ciclo produttivo- cancellati completamente i divieti di interposizione di mano d’opera della legge 1369/60 (già abrogata dal “pacchetto Treu”: legge 196/97)- non prevede la sussistenza di alcuna ragione giustificatrice.
2. Contratti diversi da quello “comune”
Alla negazione della stabilità di cui si è detto, fa riscontro la pesante riduzione della durata del rapporto di lavoro attraverso molteplici strumenti, tutti previsti se non incentivati dalla legge.
La frammentazione è perseguita attraverso varie tipologie: contratti a termine, di somministrazione, intermittenti, accessori.
Viene portata a ulteriore effetto la liberalizzazione del termine apposto al contratto, malgrado dichiarazioni di preferenza per il lavoro a tempo indeterminato, in omaggio solo formale alla direttiva europea n.70 del 1999. Infatti, il contratto può essere a termine senza bisogno di enunciare ragione alcuna, può durare fino a 36 mesi, con la possibilità che, nel periodo dato, si verifichino ben cinque proroghe di sei mesi l’una, ciò che equivale a un periodo di prova di tre anni.
Sul contratto di lavoro in somministrazione si è già detto.
Alla frantumazione dei periodi lavorati fa riscontro anche la frammentazione dell’orario attraverso l’uso indiscriminato del lavoro part time, che prevede la possibilità di orario elastico nella collocazione quotidiana o settimanale e nella durata (lo straordinario è consentito), sempre a discrezione padronale.
Altra tipologia di frammentazione lavorativa presenta il contratto di lavoro intermittente, che si applica in particolare ai settori del turismo, spettacolo, pubblici esercizi e che può anche prevedere la possibilità per il lavoratore di rendersi disponibile, dietro compenso, per prestazioni a chiamata.
Il lavoro accessorio retribuito con voucher evita persino il costituirsi di un contratto fra datore e prestatore di lavoro. Introdotto nel 2003 al dichiarato scopo di fa emergere il lavoro sommerso (o nero), era previsto originariamente per le categorie più vessate dal mercato (donne, immigrati, disabili…), si è esteso, nel tempo, a tutte le categorie e i settori produttivi.
Cancellato, in vista del referendum indetto dal sindacato CGIL, viene ora ripristinato con poche varianti, ciò che ci regala una ulteriore violazione di costituzionalità.
3.Alcuni aspetti d’incostituzionalità
Il disegno complessivo dei testi normativi degli anni Duemila contrasta l’emancipazione dal bisogno che è precondizione per lo sviluppo della persona umana verso traguardi di eguaglianza e di libertà (art. 3 della Costituzione).
La negazione della progressione nella professionalità e della dignità nella prestazione lavorativa viola gli artt. 4 e 35 della Costituzione. Questa negazione è plurioffensiva perché mina contemporaneamente, attraverso la pluralità di soggetti coinvolti, il progresso complessivo della società.
Il patrimonio individuale di professionalità e sapere serve, infatti, anche al miglioramento materiale e spirituale dei rapporti in cui ciascuno si trova inserito e che formano nel loro complesso la società. Una popolazione ignorante è facilmente manovrabile dalle oligarchie al potere.
La cancellazione di ogni patrimonio professionale nel lavoro subordinato si unisce alla frantumazione causata da una variegata tipologia di contratti temporanei (che restano intatti, salvo qualche correzione nel contratto a progetto), ancor meno garantiti dal punto di vista della sufficienza della retribuzione, che dovrebbe essere –ma non è- finalizzata alla dignità personale e famigliare del lavoratore (art. 36 della Costituzione).
La dignità umana è caratteristica ineliminabile di una società orientata verso obiettivi di giustizia, come afferma anche la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Tutto al contrario, la legislazione degli anni Duemila delinea una società mercantile, divisa in caste inamovibili, in cui l’iniziativa economica è non solo svincolata dall’utilità sociale (art.41 della Costituzione), ma anche nemica esplicita della dignità umana e della solidarietà.
Come risulta evidente, questa grande trasformazione coinvolge l’intero assetto democratico : se il lavoro costituzionale è manifestazione di democrazia, il lavoro non tutelato da garanzie, divenuto servile, è espressione di oligarchia, di vittoria dell’1% della società a scapito del residuo 99%, sottoposto costantemente al rischio di scivolare nell’indigenza.
Questo era, al fondo, il disegno: sfidare il conflitto di classe e dare la palma della vittoria ai beati
possidentes.
L’abolizione dell’art. 18 S.L., la liberalizzazione dei contratti a termine, la finta formazione dell’alternanza scuola-lavoro mirano ad abbattere il costo del lavoro, non ad allargare la base produttiva.
Tipico il caso degli “scontrinisti” riferito da Gramellini sul Corriere della Sera (19.5.2017) e commentato da Tomaso Montanari su la Repubblica (29.5.2017): decine di addetti alla Biblioteca Nazionale di Roma, dipendenti di una cooperativa svanita nel nulla, hanno proseguito per anni a prestare la loro opera essendo “retribuiti” con poche centinaia di euro mensili, dietro presentazione di scontrini per fingere un inesistente rimborso spese ed evitare di regolarizzare il rapporto. Quando hanno richiesto il contratto promesso da anni e la giusta retribuzione sono stati tutti licenziati.
Nella situazione ha giocato e gioca
4. La femminilizzazione del lavoro
L’espressione può indicare sia l’ingresso cospicuo delle donne nel mercato del lavoro, sia il cambio di natura del lavoro stesso, divenuto flessibile e scarsamente tutelato con estensione di modalità tipiche del lavoro di cura quali la relazionalità, l’impegno senza orario, la tendenziale gratuità (esempi sopra detti: pagamento a voucher o a scontrini, stage gratuito …..).
Non vi è dubbio che alla base della piramide antidemocratica si trovi la grande maggioranza delle donne che sono le più colpite dal venir meno dell’apparato normativo garantista in favore della flessibilità delle “risorse umane”, rese merce nel mercato del lavoro.
La frammentazione del lavoro, spesso a chiamata, che rende quasi impossibile una pianificazione degli impegni personali, non si concilia con le attività di cura famigliare che per le donne italiane occupa un gran numero di ore settimanali, specialmente se sono sposate e con figli.
Come si è detto, la situazione attuale registra l’imposizione di una flessibilità del lavoro che determina la completa cancellazione della possibilità di autogoverno sulla propria esistenza, poiché il tempo della vita è conformato in via esclusiva sulle esigenze delle imprese.
Questa è una spiegazione realistica del fenomeno, ma solo di superficiale evidenza.
Non va dimenticato che molti casi mostrano come fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, per le donne si verificasse una sorta di anticipazione di precarietà giocata, però, nella grande fabbrica, nella grande distribuzione, nel terziario avanzato, vigente il diritto del lavoro garantista di allora.
Ne riferisco analiticamente in vari scritti reperibili sul sito della Libera Università delle Donne e dell’Agorà del Lavoro di Milano oltre che nel libro “L’Emancipazione Malata” edito dalla Libera Università delle Donne.
Si tratta di un lavoro di ricerca e riflessione dal quale, secondo me, risulta chiaro che il futuro ha un cuore antico: già allora era ipotizzabile la possibilità concreta di un regresso nella trama dei diritti e delle garanzie per tutti coloro (la maggioranza degli umani) che la lotteria della nascita ovvero le scelte personali collocano assai distanti dalle leve del potere; respingono ai margini della società, opulenta o in crisi che sia. Molti dei casi di lotta sindacale riferiti mostrano un intreccio fra conflitto di classe e conflitto di sesso per l’aggiudicazione di risorse via via sempre più scarse.
Si era reso evidente che, anche in situazioni (oggi impensabili) di lavoro stabile tutelato da un apparato di leggi garantiste, nei casi di licenziamenti collettivi e sospensioni in Cassa Integrazione Guadagni per ristrutturazioni aziendali, le donne apparivano penalizzate, dequalificate nelle mansioni, espulse in via prioritaria, essendo carente già allora un sostegno efficace alla loro lotta da parte dei sindacati confederali; ciò che ci ha indotte a pensare che molte erano iscritte a quelle associazioni, ma certamente non erano rappresentate.
Più precisamente, persino nelle grandi imprese, non era contrastata efficacemente la molteplicità dei trattamenti deteriori; una svalorizzazione di sesso che in alcuni casi era persino favorita da accordi sindacali in deroga alla legge di parità.
Oggi poi, anche se i dati non sono facilmente scomputabili per sesso, alcuni studi dimostrano che dell’enorme disoccupazione e inoccupazione giovanile, della gran massa di tipologie contrattuali flessibili, la parte più rilevante è riservata a esseri umani di sesso femminile.
In Italia, infatti, secondo statistiche ufficiali, il tasso di occupazione femminile è permanentemente inferiore a quello maschile.
Uno svantaggio rilevante che sembrerebbe destinato a produrre tensione tra la responsabilità delle vite e le costrizioni di un lavoro frammentato, più che mai subalterno (nella realtà, nonostante le definizioni mistificatorie), fino al punto di sollecitare un nuovo conflitto per conquistarsi una vita degna. Che però non appare all’orizzonte.
E’ mia opinione che pratiche egoistiche di stampo patriarcale, abbiano concorso a depotenziare il conflitto di classe, oscurando i reali obiettivi, promuovendo la cosiddetta lotta fra poveri o più precisamente fra soggetti diversamente sessuati.
Oggi è evidente la rottura generalizzata dei vincoli di solidarietà in favore della competizione fra soggetti deprivati, che faticano a organizzare una resistenza perché sono occupati a concorrere in mille per dieci (insoddisfacenti) posti disponibili.
La reclamizzata “meritocrazia” spezza l’unità della classe subalterna e offusca l’alterità fra venditore e acquirente della forza lavoro. Però, pensiamoci: non era forse una sorta di meritocrazia falsata quella che rendeva tradizionalmente preferibile la forza lavoro maschile rispetto a quella femminile?
5. Una proposta
L’occupazione è precaria, male o per nulla retribuita, la disoccupazione è sempre a livelli altissimi e difficilmente potrà decrescere essendo prevedibile la sostituzione di addetti a varie mansioni con macchine intelligenti.
L’ascensore sociale è bloccato in salita ma funziona assai bene in discesa, ciò che mette a rischio strati sempre più ampi di popolazione (l’incidenza della povertà assoluta individuale, secondo recenti dati ISTAT, è preoccupante: il 7,6% ).
Occorre porre un freno alla precarietà esistenziale che colpisce la parte largamente maggioritaria della società.
Secondo me, si prospettano due ipotesi concorrenti.
Una consiste nell’attivarsi affinché soggetti apparentemente conquistati dalla logica dell’autoimprenditorialità e della competizione -produttrici di autosfruttamento dai risultati generalmente miseri- prendano finalmente coscienza con disgusto del presente stato di cose e inizino un percorso di consapevole ribellione. Questo sarebbe il compito di organizzazioni sindacali anche minoritarie.
In quest’ottica, si può pensare a sistemi di autotutela e di mutuo aiuto: il mutualismo, soluzione ipotizzata da Sergio Bologna (v. “Gratificazione o sfruttamento? Dal lavoro gratuito alle nuove forme di organizzazione e mutualismo”, Effimera 8.5.2017).
Questa via dovrebbe anche condurre alla riacquisizione dei diritti fondamentali, che sono la precondizione per la partecipazione alla cittadinanza, ciò che richiede di fare vuoto nell’attuale ordinamento, contro costituzionale, come si è sopra detto.
Un percorso tutto in salita volto a conseguire la reale attuazione della Costituzione italiana -smentita dalla cosiddetta costituzione materiale- e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
L’altra via (concorrente) induce a prendere sul serio la sperimentazione in atto in alcuni Paesi (Italia, Olanda, Portogallo, Scozia, Croazia) all’interno del progetto europeo Horizon 2020, il PIE News (Poverty, Income, Employment, cioè Povertà, reddito,occupazione).
Il progetto ha lo scopo di coinvolgere i soggetti che vivono in condizioni precarie per impoverimento, assenza di reddito, difficoltà d’impiego, creando e implementando una piattaforma digitale dove saranno raccolte informazioni sui contesti socio economici, sui sistemi di assicurazione sociale oggi esistenti oltre alla descrizione di iniziative di welfare dal basso, modelli di autogestione, autorganizzazione, mutuo aiuto, nella prospettiva di fornire indicazioni anche alle politiche pubbliche al fine di promuovere il commonfare, cioè il welfare dal basso.
Un pilastro fondante del commonfare é stato individuato nel reddito di base universale e incondizionato oltre che nel libero e tendenzialmente gratuito accesso ai beni comuni materiali e immateriali (v. Cristina Morini Crisi del welfare state e welfare del comune: il progetto di ricerca PIE News).
Condivide l’opinione del necessario ricorso al reddito di base e alla correzione dell’attuale sistema sociale il prof. M. Marmot docente di epidemiologia al London University College e Presidente della World Medical Association che identifica nel grave sbilancio delle situazioni economiche degli individui, persino se residenti nella stessa città, l’origine di malattie e diminuita speranza di vita (Il Fatto Quotidiano 31.5.2017).
Il soddisfacimento dei diritti all’abitazione, mobilità, istruzione e cultura agiscono come medicina preventiva rispetto alla salute di individui e collettività.
Personalmente, considero il basic income una misura importante di dignità esistenziale -universale e incondizionata- applicabile a tutti gli esseri umani, che trova sostegno in valori e principi fondamentali della nostra civiltà giuridica.
Nel Titolo sui rapporti economici, all’art. 38, la Costituzione prevede il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per i cittadini in difficoltà, diritto che va coniugato con il principio fondamentale dell’art. 3 che garantisce la partecipazione di tutti, in quanto dotati di pari dignità, all’organizzazione politica e sociale, impegnando la Repubblica alla rimozione degli ostacoli economici.
Anche la Carta di Nizza (o Trattato costituzionale) all’art. 34 impegna l’Europa ad assicurare a ogni cittadino una esistenza dignitosa.
Come ha ripetutamente rilevato il giurista Stefano Rodotà, si tratta d’indicazioni giuridicamente vincolanti, scomparse dalla discussione pubblica ingolfata nel riduzionismo economico.
Indicazioni che hanno eco a livello planetario nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (art. 45) che prevede per chiunque un “tenore di vita sufficiente a garantire salute e benessere” e nel Patto Internazionale sui diritti economici e sociali approvato dall’ONU nel 1976 (art. 11).
Sollecitazioni a introdurre misure di basic income sono state fatte agli Stati membri dell’Unione europea dal Consiglio d’Europa nel 1992, dalla Commissione nel 2008, dal Parlamento nel 2011, tanto che solo Italia, Grecia e Ungheria ne sono attualmente prive. La misura proposta a livello europeo è pari al 60% di uno stipendio medio, ma essa, per ora, differisce da Stato a Stato, là dove applicata.
Si evidenzia subito un motivo di apprezzamento per lo strumento detto basic income: il tentativo di perseguire collettivamente un modello di Europa sociale, in contrasto con il modello finanziario di Europa dei banchieri, oggi in auge.
Il fatto, poi, che lo si voglia incondizionato e universalistico determina la possibilità di creare alleanze trasversali intersoggettive e intergenerazionali. Una ricerca di eguaglianza nella pari dignità di ogni essere umano cui deve essere garantito un tenore di vita dignitoso.
Alcuni aspetti dell’istituto lo rendono favorevole alle donne.
Esso è garantito ai singoli e non alle famiglie, riguarda gli esseri umani comunque sessuati e non i nuclei di convivenza tuttora a stretta egemonia maschile, ove il marito dispone normalmente di tutti i beni in virtù del suo sesso. Suppone che ognuna/o sia titolare di un pari diritto esistenziale, indipendentemente dalla collocazione famigliare e sociale.
Al ristabilimento di un equilibrio sociale penserà la tassazione fortemente progressiva sui cespiti comunque acquisiti, già prevista dall’inattuato ma vigente (quindi sempre attuabile) art. 53 della Costituzione.
Il basic income é favorevole alle donne perché esse sono maggiormente disoccupate, inoccupate, sotto qualificate e sottopagate anche se dotate di laurea e di master, quando riescono a essere presenti nel mercato del lavoro.
E’ favorevole all’acquisizione di un autentico diritto di cittadinanza che non esiste per chi non abbia assicurata l’indipendenza economica, indipendenza per le donne assai problematica, allo stato.
Alla obiezione che il basic income rafforzi la tendenza femminile a lavorare per la famiglia, molte femministe rispondono che può essere così nel breve periodo finché prevalgono stereotipi culturali tradizionali, perché i cambiamenti destano timore. Ma nel medio o lungo termine una modesta indipendenza economica rende il lavoro per il mercato una scelta autentica e determina un cambiamento di cultura. Le donne possono considerarsi cittadine a pieno titolo anche perché viene detronizzato il lavoro per il mercato che cessa di essere l’unica cosa che conta ai fini della piena cittadinanza. (C.Pateman “Freedom and democracy”). Questo concetto risuona anche alle nostre orecchie di italiane, basta considerare gli artt. 1 e 37 della Costituzione repubblicana: un trono al lavoro maschile, uno sgabello a quello femminile.
In altre parole, il basic income costituisce una garanzia sociale capace di districare il legame fra lavoro e guadagno, contribuendo alla modifica di una società imperniata su un bene fortemente sbilanciato e attualmente ridotto al lumicino, il lavoro, appunto.
Il basic income potrebbe avere un effetto di trasformazione, relativizzando la divisione sessuale del lavoro e, attraverso la desacralizzazione del lavoro per il mercato, costituire un incentivo per gli uomini a condividere più equamente il lavoro in famiglia prendendosi cura di se medesimi e degli altri. La de-mercificazione insita nel basic income fornisce molte opportunità in tal senso specialmente alle giovani generazioni.
Relazione all’incontro del 30 maggio 2017 al Giardino su: “Diritti e forme di (dis)occupazione oggi”