Con il titolo del Convegno, ci si riferisce – fra i tanti concetti introdotti da Liana, appunto le sue eredità plurali – alla teoria degli affetti e alla diffrazione, come dispositivo per fare utopia, di cui oggi abbiamo più che mai bisogno.
In questo orizzonte penso così allo scritto di Liana su Il libro del sale di Monique Truong, in cui il narratore Binh è il cuoco gay vietnamita che lavora da Gertrude Stein, e che le ricorda, per la perdita e la migrazione, Il libro dei desideri di Dionne Brand: il vocabolario affettivo della migrazione che attraversa entrambi i testi mi rimanda a Perdi la madre di Saidiya Hartman, perché, pur nelle differenze di struttura, ugualmente rabbia, memoria, dolore, speranza sono punti di ingresso in episodi e luoghi della storia narrata.
La memoria della schiavitù che ossessiona Brand non è distante dalla descrizione che fa Truong delle speranze perdute nell’immigrazione. E la schiavitù d’altra parte – posta al centro – riporta ad altri corpi considerati oggi spendibili in uno sfruttamento ancora coloniale. Questi libri sono – come dice Liana – un’ affordance (Gibson) nel senso che esercitano un’attrazione, oggetti che attivano relazioni e potenzialità di azione, con al centro la memoria nel processo legato allo spazio diasporico.
Hartman nel suo andirivieni fra passato e presente, insegue la rotta delle navi negriere dalle coste africane verso le Americhe – con l’obbiettivo, affettivo e politico, di dar voce a chi è stat* dimenticat*:
«vivo nel tempo della schiavitù -scrive – intendo nel futuro creato da essa»: è l’eterno passato-presente di Dionne Brand. Come scrive anche Adrienne Rich «la tratta degli schiavi è stata un’impresa che ha attraversato tutta la nostra storia dagli inizi».
Hartman nella città di Gwolu (Ghana), dove si erano rifugiat* schiavi e schiave in fuga, scopre che lì la memoria non è stata dispersa, e che in tal modo la schiavitù può parlare all’oggi ricordando le radici dell’accumulazione capitalistica all’Occidente. Ascoltando il canto di un gruppo di ragazze in relazione affettiva, la scrittrice capisce che l’eredità di chi fuggendo voleva «istituire una nuova società, anche a costo della vita», era in definitiva «il sogno di un altrove, con tutte le sue promesse e i suoi pericoli, dove i senza-stato potessero, finalmente, vivere».
Come altre scrittrici amate da Liana, rientra in quella prosa fratturata che esplora i margini, indaga gli interstizi del linguaggio, è strumento di rivolta: mi ricorda la narrativa di Diamila Eltit che offre una cruda e realistica lettura del sistema di produzione liberista e di un mondo del lavoro violento, con una scrittura incalzante e visionaria, spazio di resistenza all’ordine dominante, la dittatura del liberismo che ha reso il Cile uno dei paesi latinoamericani in cui le diseguaglianze sono più aspre, ma il discorso si allarga a una realtà non solo nazionale che ci riguarda tutt*. Di fronte a contesti complessi e opachi come le bio-necropolitiche in cui siamo immers*, abbiamo bisogno di racconti, pratiche e figurazioni che nutrano l’immaginazione politica (Haraway). La memoria – nelle autrici citate – è come una matita che sottolinea momenti del passato per farci meglio leggere l’oggi suscitando una responsabilità ancorata nel passato non passato e orientata al futuro: il passato diventa così ”l’irruzione improvvisa della coscienza risvegliata” (Benjamin). La visione del tempo sovrapposto delle migrazioni richiama anche le osservazioni di Karen Barad sull’etica del groviglio (entanglement) e i nostri obblighi verso il passato-futuro.
Memoria e responsabilità appaiono così figure del tempo capaci di intrecciare passato, presente e futuro. Truong vietnamita, Hartman afroamericana, Brand afrocaraibica, Eltit cilena mi sembrano interagire per lo sguardo sul potere che crea sofferenze e oppressioni in forme, luoghi e tempi differenti. In questa lettura intra-attiva di eventi e testi, il tempo lineare si sfalda e si ramifica, decostruisce l’ordine stabilito dando voce al conflitto, per decolonizzare un futuro intrappolato nei sistemi di dominio. Per Donna Haraway una lettura per diffrazione fa interagire infatti i testi al di là di ogni legame apparente di parentela, producendo una nuova “coscienza critica” interessata al cambiamento di prospettiva.
La coscienza critica o la coscienza anticipante (Bloch) si apre così al problema che il dominio, l’oppressione, la schiavitù, in forme diverse, emergono anche da noi: la gigantesca falsità per legittimare la guerra all’immigrazione in Europa ignora il nesso con guerre permanenti e devastazioni dei territori di partenza, come ignora che l’economia europea si nutre di manodopera “extra-europea” selezionata, inferiorizzata e criminalizzata proprio per legittimarne la precarizzazione permanente in quanto schiavizzabile. È il caso ad esempio dello sfruttamento di migrant*, impiegati nell’agricoltura in continuità con il passato coloniale italiano, e che svela, gli aspetti di rendita e di profitto, centrali nella produzione “istituzionale” di una forza lavoro semi-servile, usa-e-getta. È recente il processo al titolare della ditta agricola per riduzione in schiavitù di migranti dopo la morte di Mohammed Abdullah che raccoglieva pomodori nel Salento.
Le ideologie reazionarie del resto trovano – sostiene Bloch – un terreno fertile in tutte le età di crisi, quando predominano problemi economici e violenza, così ci ritroviamo ora in Italia con un governo neofascista ed un premier/donna che, con enfasi nazionalista, celebra famiglia/natalità/sicurezza, favorisce il migranticidio, nomina le differenze come devianze, associa scuola e merito. Già Carla Lonzi ricordava che è del fascismo lo slogan: Famiglia e sicurezza!
Per la filosofa e artista afrobrasiliana Denise Ferreira Da Silva l’elemento paradigmatico fondamentale del nostro tempo sono i corpi persi in mare, il passato di schiavi e i genocidi che in un groviglio (entanglement) temporale collegano i nostri migranti mediterranei con gli schiavi trasportati sull’Atlantico. Butler sostiene che bisogna ripensare l’intero spazio pubblico in cui si muovono le nuove figure di spossessamento, le rifugiate e i migranti, le lavoratrici sfruttate, i disoccupati, le precarie, chi cioè non è annoverabile tra gli indispensabili per il sistema.
La mobilitazione ha bisogno quindi di un potente immaginario politico in grado di contrastare queste fantasie e realtà fasciste che oggi minacciano la democrazia e la pace (Butler). Ma le proteste degli ultimi anni e le recenti manifestazioni di femministe e transfemministe in vari paesi – come lo sciopero dell’8 marzo, transnazionale, come il recente 26 novembre – hanno rimesso al centro quell’ “apparire in relazione” che presenta la politica come corporeità ostinata e plurale, e che Hartman aveva visto nei luoghi creati dalle schiave fuggite: evocando un futuro fondato su domande escluse dagli archivi istituzionali, le manifestazioni e le pratiche insorgenti – variabili nella forma a seconda dei momenti – esprimono uno spazio pubblico che non è controllato e omogeneo come si vorrebbe, ma smagliato, lacerato, attraversato da continui conflitti e tensioni con gli attuali algoritmi del potere. Si esprime così “una potenza irriducibile dei corpi che consiste nella loro capacità di essere figure del desiderio” (Villani), e che nelle piazze tentano di realizzare una alleanza inventata. Isabelle Stengers invita a fabbricare speranza sull’orlo dell’abisso, perché l’utopia è la critica di ciò che è, la rappresentazione di ciò che dovrebbe essere, una filosofia del desiderio di rovesciare la società ingiusta depositaria dei destini del presente: “Voi/noi possiamo essere energia di responsabilità laddove il capitalismo cerca di minare la possibilità di concepire un mondo migliore”. “Non vogliamo essere incluse – come afferma Angela Davis – in una società razzista e capitalista che non valuta tutti gli esseri umani”.
Contro la visione “di dominio, sfruttamento e consumo di persone e cose e della Terra, che è… un’unica casa comune” (Toni Maraini), dunque le immagini di manifestazioni transfemministe, ma anche un’altra realtà, fatta di persone, associazioni, gruppi che, con documentazioni, libri e rapporti prendono parola e resistono: «mattoni di parole per continuare a costruire le possibilità di rivoluzionare il mondo» (Alessandra Pigliaru).
Per cambiare il punto di vista, sottolineava anche Liana, occorrono quindi domande, parole, azioni, emergono i concetti sudati che, spiega Ahmed, sono generati dall’esperienza pratica dello scontrarsi con il mondo cercando di trasformarlo. Bisogna liberare le parole del dominio, masticate e impolverate, aprire la strada a trapassi imprevedibili, ed è appunto questa prospettiva – che sfugge al controllo, perché aperta alla “pura possibilità” – a destare allarme: infatti è sovversiva perché sognare e desiderare, vuol dire decollare verso paesaggi sconosciuti.
Viene in mente la scena del film Il mago di Oz, in cui Dorothy, il Leone, l’Uomo di latta e lo Spaventapasseri fuggono insieme dalla strega malefica, danzando e cantando, in un sodalizio tra regno umano, vegetale e minerale. Questo abbozzo di originale alleanza narrata nel 1900 sembra un ammicco alla successiva fabulazione speculativa di Donna Haraway e alla sua miriade di configurazioni aperte per poter “sopravvivere in un pianeta infetto”.
Una delle eredità di Liana è proprio la ricerca di sempre nuove mappe conoscitive, di immaginari diversi e nuove fonti teoriche, allargando il campo delle conoscenze acquisite nella costante critica alle strutture interpretative consolidate, quasi una danza fra biforcazioni continue sul confine, per momenti e comunità diverse. L’eredità – intesa come trasmissione femminista – non è passiva e non va perciò irretita, cristallizzata, ma deve spingere a esplorarne lo spazio favorendo un viaggio conoscitivo, senza dimenticare mai che proviene da un atto creativo dell’immaginazione, da un desiderio, perciò richiede forme di creatività nell’esplorazione stessa. L’eredità – che offre un patrimonio di conoscenza ed esperienza su cui riflettere – poggia anche sulla relazione per chi ha conosciuto Liana e accettato i suoi stimoli cercando di attenuarne l’assenza. Nel tempo tuttavia potrà creare altre relazioni in chi leggerà i suoi scritti, fra identificazione e divario, fra trasmissione e trasgressione, diventando parte di una memoria collettiva di cui anche “giovani attivist* che non l’hanno conosciuta possano nutrirsi” (Coco).
Conoscere teorie e pratiche precedenti è un modo per avere molti più strumenti nell’oggi, ma l’atto di ereditare è un lavoro, in particolare perché per Liana nessuna conoscenza è definitiva, dunque una elaborazione complessa quando si sente il vuoto, affettivo e/o intellettivo, da recuperare, quando ci si sente limitat* nei paradigmi del momento. Liana ci offre l’esempio di una frantumazione dei confini, trasformati in soglie e transiti: il luogo della sua indagine sta negli incroci, intreccio di testi con altri testi, di culture con altre culture, di pensieri con altri pensieri. Il vortice di parole, concetti, pratiche che metteva a disposizione, nelle relazioni politiche e affettive, era una spinta necessaria a tramare ulteriori percorsi quotidiani di resistenza, per una società dell’accoglienza e della responsabilità. Nicoletta Vallorani ha offerto la suggestiva immagine della ragnatela,” i cui snodi sono le parole chiave” legate ai suoi sconfinamenti fra saperi.
Se a volte alle generazioni successive le eredità del femminismo possono sembrare onerose perché cariche di teorie e azioni già formulate, è diverso per Liana poiché la sua ricerca si poneva e poneva continuamente domande, senza mai cristallizzarsi: un’avventura che spinge solo ad altre avventure del pensiero. Liana ci avverte che occorre essere guardinghi verso i propri schemi mentali con cui necessariamente esploriamo il mondo perché possono diventare una prigione, norma, schema, ripetizione, vuoti slogan. Raccogliere l’eredità di un tale pensiero in movimento perciò è prezioso ma richiede anche un impegno: quelle parole non sono date per scontate, ma hanno bisogno di essere riviste con esperienze e ricerche di donne che vivranno una condizione culturale e politica in parte cambiata, in parte vicina al passato prossimo. È una trasmissione non come mera conservazione ma come memoria per creare nuove ricerche: i futuri che il suo lascito lascia aperti si dipaneranno nelle parentele tentacolari del fare-mondo queer (Arfini).
Non è tanto perciò un passaggio fra generazioni, ma un movimento di continuità/discontinuità di pensiero: interrogare nuovamente quel pensiero sul presente di chi legge, cogliere le tracce significative per sé e per il mondo vuol dire reinventare, a partire da quella eredità, fra ammirazione/riconoscimento e tensione della distanza. Ahmed – citando La signora Dalloway di Woolf – dice che un libro può offrire un’eredità femminista, diventando “una compagna femminista: è la traccia di una storia che non è finita”. Così gli scritti di Liana offrono il materiale di una storia che non è finita.
Sono tante le studiose straniere, femministe, attiviste, poete che ha fatto conoscere, mettendo in circolazione le loro idee in varie forme, creando immaginari diversi nell’intreccio con i movimenti femministi e transfemministi mondiali, per abitare confini fluttuanti, sui crocevia tra teorie. Attraversare i confini disciplinari, fare incursioni in concetti, figurazioni e strumenti da un ambito all’altro, viaggiare fra testi e teorie nuove, scaturiva in Liana dal desiderio di decollare verso paesaggi sconosciuti, attraverso le tantissime mappe che delineava: tante mappe legate ai contesti diversi di ricerche differenti, per ridefinire continuamente il viaggio di conoscenza. La mappa cognitiva è uno schema percettivo che offre informazioni e guida esplorazioni, viaggi: fare mappe corrisponde all’idea di mobilità intellettuale, di pensiero come ricerca, transito, processo: le mappe sono luci di una festa del pensiero critico che scuote il quadro immobile della prigione dell’eterno presente del tempo e dello spazio della globalizzazione. La grande narrazione del pensiero unico attraverso un linguaggio arrogante, violento mira ad un assenso progressivo, acquiescente al sistema per addomesticare, pietrificare e bloccare qualsiasi trasformazione che ne pregiudichi il funzionamento. Ma- come ci ha trasmesso Liana – la ricerca di una contaminazione nella lettura di testi di scrittrici e studiose, attingendo al pensiero filosofico, epistemologico, alle pratiche femministe e transfemministe, aiuta a cogliere sconfinamenti, crepe e disseminazioni nella complessità liberista, aiuta a capire le forme di dissenso utopico, ogni performance possibile che indaghi disaffezioni, fallimenti, sottrazioni, dis-identificazioni, utili a resistere e contrastare il dominio. Quindi “libri compagni”, scrive Ahmed – che ti permettono di procedere per sentieri non battuti, e movimenti “pieni di speranza” ed energia di femministe ostinate, impazienti, ammazzagioa/guastafeste.
Da Raccontar/si ai vari incontri svolti al Giardino abbiamo capito con Liana come l’affettività consegna il corpo a un mondo di incontri e di possibilità perché nel femminismo è un punto vitale di partenza per un’etica della trasformazione orientata al futuro (Braidotti). L’affetto è performativo poichè mette il corpo in movimento, lo colloca in una situazione di continuo divenire: come dice anche Paola Di Cori, emozioni e affettività sono condizione fondamentale della soggettività ed elemento fondante degli studi femministi, postcoloniali, queer.
Gli affetti sono perciò in grado di far entrare i corpi in contatto con altri corpi: le emozioni circolano, si trasmettono, e muovendosi fra corpi e segni immaginano tasselli di futuro. Perciò anche se non sappiamo – ricordava Liana- come riuscire ad abbattere muri e raggiungere la giustizia, eppure se notate delle crepe, sono le nostre reti affettive, il nostro attivismo, le nostre letture, i nostri scritti che le causano.
Riferimenti bibliografici.
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Di Cori, Paola, “ Non solo polvere. Soggettività e archivi”, in Archivi delle donne in Piemonte. Guida alle fonti, a cura di Paola Novaria e Caterina Rocco, Torino, 2014.
Davis, Angela, Donne razza e classe, Alegre 2018.
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Lonzi, Carla, Sputiamo su Hegel…, Scritti di Rivolta femminile, 1974.
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Pigliaru, Alessandra, “Relazione. Dialogo tra Laura Fortini e Alessandra Pigliaru”, in SIL/labario, a cura di G. Misserville, R. Svandrlik e L. Marzi, Iacobelli, 2022.
Rich, Adrienne, “Why I Refused the National Medal for the Arts” 1997, rist. In Arts of the Possible, Norton, New York 2001.
Stengers, Isabelle, Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Rosenberg&Sellier 2021.
Truong Monique, Il libro del sale, Giunti 2007.
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