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La terra più amata. Voci della letteratura palestinese

Introduzione di Aldo Ceccoli

Giardino dei Ciliegi sabato 20 aprile 2024

Mi sono sentito spesso inadeguato quando ho presentato qualcosa al Giardino, ma mai come in questa occasione per una ragione fondamentale: trattare il tema richiede di essere veramente dalla parte dei palestinesi e io non lo sono perché non è sufficiente parlare a loro difesa. Essere dalla loro parte vuol dire vivere le loro condizioni per camminare e lottare insieme. Ed è da questa inadeguatezza che parlo.

La responsabilità di quanto sta accadendo in terra di Palestrina è certamente del governo israeliano ma un ruolo centrale lo ha svolto il silenzio che, come un sudario, ha avvolto negli ultimi anni il problema palestinese che restava intatto con tutto il suo potenziale distruttivo. Lontana e sola era la terra di Palestina che continuava ad essere travolta da una violenza assoluta. È da 75 anni che dura questa tragedia supportata e sostenuta dall’Occidente. Certo Israele commette crimini di guerra, viola il diritto internazionale, ignora le risoluzioni dell’Onu, ma senza il sostegno di Usa, Gb, UE, e di altri paesi non avrebbe mai potuto opprimere e perseguitare il popolo palestinese senza incorrere in sanzioni severe. Non si può non notare che dopo l’attacco russo all’Ucraina, le nazioni occidentali hanno attuato una serie di sanzioni contro la Russia. Nel caso della Palestina nulla di tutto questo.

La letteratura non è altra cosa dalla politica quando è portatrice di interrogativi, per costruire – mentre si racconta – un mondo differente come ricordava Clotilde Barbarulli domenica scorsa presentando la narrativa di Suad Amiry.

La poesia come forma espressiva, è invece sentita agli antipodi dalla politica. Ebbene tra le tante assenze che la segnano, credo che la mancanza di poesia sia la causa principale dei tanti dolori che sono inflitti dalle istituzioni, dai governi, dall’economia, dai singoli. Il poeta Vittorio Sereni, presentando per la prima volta in italiano le poesie di Seferis (1971), scrive che ogni singola poesia, non la si legge semplicemente: con essa bisogna convivere. Ecco, uno dei nostri sogni più cari è proprio quello che la politica conviva con la poesia. Nell’antologia che si presenta, non scrive forse Mahmud Darwish “Non conoscete un po’ di poesia per fermare il massacro? (p. 85). Ecco perché i poeti anche in tempo di guerra contano. Perché impediscono di entrare nella comparazione tra le violenze e di accettare che si compili una oscena classifica tra genocidi, poiché si sta parlando di vite perdute di milioni di persone.

 “Perché continua la guerra di sterminio?” (p.  80). La domanda-urlo di Darwish -che per me permea tutto il libro – esprime il fatto che le/i palestinesi, come noi, continuano a non capire perché solo loro devono scontare il peso di un passato ignominioso di cui non sono responsabili.

Il rapporto dell’ONU del giugno 2022 pur stigmatizzando errori e certe pratiche dell’Autorità palestinese e di Hamas, rimarca che porre fine all’occupazione militare, ai crimini compiuti dai militari, alle pratiche razziste presenti in tutto il paese, agli insediamenti coloniali illegali, è essenziale per fermare il clima di persistente violenza. 

Ma a 75 anni dopo la fondazione dello Stato di Israele, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, leader del partito “Sionismo religioso”, ha affermato nel marzo del 2023 che “non si può parlare di palestinesi perché non esiste un popolo palestinese.” Il popolo palestinese, ha spiegato, “è una finzione elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista”. Giora Eiland ex generale dell’esercito, autore nel 2004 del piano per trasferire i palestinesi di Gaza verso il Sinai, ha scritto il 22.10.2023: “Gaza diventerà un luogo dove nessun essere umano potrà esistere”, sottolineando che la diffusione di “gravi epidemie a Gaza sono un bene per Israele, avvicineranno la nostra vittoria”.  

Per reazione questo mi ha riportato al volume del 2015 “Pro Armenia. Voci ebraiche del genocidio armeno”. L’aspetto significativo del volume è che tutti gli autori sono ebrei. Era il 1915, mancavano dunque alcuni decenni allo sterminio industrializzato dei nazisti, eppure alcuni ebrei assistono alla strage e ne comprendono il dramma. Sono voci di chi ha evidente memoria di persecuzioni collettive e si misura con il genocidio di altri, scoprendo che gli è impossibile rimanere indifferente.

Di questo sentire non c’è nessuna traccia nella maggioranza della società israeliana. Uno stato di guerra permanente porta ad un degrado inevitabile. Cosa succede quando si vive una vita senza giustizia? quando si è cancellati come singoli e come popolo? “quando – come dice la poeta Dunya al-Amal Ismail – si strappa il sole dal volto”? (p. 41), E dall’altra parte cosa succede quando si è così indifferenti alle sofferenze del paese contro il quale si scatena un’aggressione alla popolazione civile? Gli israeliani deumanizzano le/i palestinesi definiti “animali” ma così facendo disumanizzano se stessi. D’altronde la deumanizzazione è uno dei tratti caratteristici della società liberista: rifiuti umani sono i lavoratori ridotti a merce, i migranti, i profughi di guerra e la disumanizzazione si estende a tutte le culture che non siano quella occidentale.  

Non solo bombe da 500 chili e oltre, fosse comuni, distruzione di case, ospedali, scuole, università, si uccidono anche poeti e intellettuali perché si vuole distruggere storia e cultura con il beneplacito di gran parte del mondo. La Palestina viene dilaniata secondo il progetto di una società pura. Siamo oltre i 35.000 morti (a cui si aggiungono attualmente i 70mila e più feriti), di cui il 65% sono donne e bambini. Inoltre sono stati ammazzati operatori umanitari, funzionari delle Nazioni Unite, giornalisti. Non sono mancati i selfi dei soldati israeliani con fondale le rovine di Gaza, e nemmeno le ruberie nelle case degli abitanti, uccisi magari qualche istante prima. Ed abbiamo al valico di Rafah gli avvoltoi della compagnia egiziana Hala, con sede al Cairo, che da anni hanno monopolizzato il mercato delle uscite di esseri umani dalla Striscia di Gaza. Secondo varie testimonianze si paga dai 2.500 ai 10.000 dollari per persona. Secondo alcune stime, a febbraio in sole due settimane Hala ha gestito l’uscita di oltre 4.600 persone, con un incasso stimato di un milione di dollari al giorno. 

Chi sta in silenzio o accusa di terrorismo chi critica Israele, sta difendendo tutto questo; questo stanno difendendo i manganelli contro chi chiede la fine del massacro. Il fatto incontrovertibile è che siamo di fronte a pratiche fasciste. Il culto della morte che accumunava il fascismo e il nazismo storici, sopravvive alla loro sconfitta militare, giungendo fino a noi. L’esempio immondo è fornito dagli Usa che sostanzialmente chiedono al governo israeliano di uccidere ma con moderazione. 

Quando sono stato invitato a parlare sulla questione palestinese negli anni passati, ho sempre sostenuto che il dramma del popolo palestinese doveva riguardare tutti/e poiché la violenza dell’apartheid, ossia del capitalismo razziale, costituiva nella strategia della globalizzazione liberista, l’archetipo da seguire. Analogamente oggi tutto il mondo è dentro a ciò che accade in Palestina.

Il sangue dei vari massacri perpetrati si produce perché la società è già collassata da tempo, ha perso ogni etica. “Siamo diventati una società violenta che permette a partiti fascisti di entrare al governo”, dice Meir Margalit, ebreo argentino. Queste parole hanno valore generale: la società dell’esclusione e le sue guerre rimuovono la democrazia sotto ogni latitudine. La dimensione militare insieme alla mitologia di un nemico dai tratti ricorrenti – satanico, distruttivo, senza Dio o con un Dio altro – è il mezzo attraverso cui l’uguaglianza, la giustizia, le libertà vengono cancellate. 

La guerra è sempre la lingua dei carnefici e oggi assistiamo al ritorno dei suoi chierici. Dicono che si deve preparare la popolazione europea alla guerra, che è necessario educare gli studenti su come comportarsi nell’evenienza di un conflitto armato; che è necessario il ripristino della leva obbligatoria. Il presidente del consiglio europeo Charles Michel ha pubblicato uno scritto dal titolo “Se vogliamo la pace prepariamo la guerra” invitando a passare alla modalità di economia di guerra: “Tutto questo farà bene non solo a Kiev e alla democrazia europea, ma creerà posti di lavoro e crescita in tutta l’Unione”. 

Nella corsa al riarmo c’è il conosciuto delinquenziale keynesismo militare oppure c’è anche qualcosa di più oscuro? Occorre fare molta attenzione sul come il capitalismo ferito cerchi di ristrutturare se stesso per riprendere più in fretta possibile la sua corsa. Il mondo liberista, le sue oligarchie e autocrazie non possono dare nessuna risposta alla crisi sociale, politica, culturale, climatica poiché ne sono gli artefici. Il parlare di guerra nucleare, di bombe nucleari tattiche, di corsa al riarmo, di economia di guerra prefigura una società militarizzata, autoritaria e uno stato di polizia: questo è l’antidoto ai problemi a cui il liberismo non può dare nessuna risposta.

Sono i ladri di futuro, sono gli assassini che governano oggi il mondo. Questo ha prodotto il fascio-liberismo che domina da 40 anni. Uso questo termine perché da decenni idee fasciste camuffate da leggi economiche, dominano le nostre società. Ecco allora che si apre il “reparto assassini” (traggo l’espressione dal saggio di Abram De Swaan “Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa”) che è oggi particolarmente attivo con le morti sul lavoro, il femminicidio, il migranticidio, le guerre. Il capitale quando si sente minacciato apre il “reparto assassini” che ha il compito di tutelarlo, difenderlo, perpetuarlo. E il fascismo è questo reparto. 

Si può inoltre constatare che siamo imprigionati nella politica del Cinquecento, la politica della volontà di potenza, la politica della Ragion di Stato che ha lastricato la storia di cadaveri fino ai nostri giorni. Allora dico in punta di piedi e senza nessuna retorica: occorre un salto di civiltà, una politica nuova. Un nuovo modo di concepire la politica che si ponga come obiettivo non negoziabile, quello di tutelare la fragilità e il sorriso. 

Forse il più toccante dei discorsi di Martin Luther King, è quello che inizia con “Io ho un sogno”. Questo sogno era che le genti di tutto il mondo, di ogni razza e religione e colore potessero marciare insieme per la costruzione di un mondo libero dalla fame, dalla violenza, dalla povertà, dalle guerre. Cosa resta oggi di quel sogno?

Ma non dobbiamo ammainare le vele. Come scrive Chiara Cruciati, sul Manifesto del 9 marzo 2024, il transfemminismo è una visione complessiva della società che vede in guerre, massacri e colonialismo l’espressione più alta della violenza patriarcale. Così di fronte a un’onda nera che monta, i movimenti transfemministi offrono una speranza, attraverso l’intersezione delle lotte e un’idea di liberazione completa e complessiva. Per tutt*. Mi permetto di aggiungere che questo significa relegare nella preistoria del mondo la storia dello sfruttamento, della violenza, della guerra e il suo preistorico sistema di produzione. Così “il sogno dei gigli bianchi, strade di canto, e una casa di luce” diventerà realtà e tutte le bambine e i bambini palestinesi, e noi con loro, potranno riaffermare: “sono nato per il sole che sorge / non per quello che tramonta” (dal Canto per la Palestina, edito da il manifesto il 1989). 


Presentazione del libro La terra più amata

Mariella Pala

Ringrazio Aldo e le amiche del Giardino (fra cui, in particolare, Clotilde) che mi hanno invitata oggi in questo spazio.

Uno spazio che negli anni ha ospitato diverse donne e uomini palestinesi, Manal e Nariman Al Tamini, Ahmad Azza e Jannat Salayma, Mahmoud Zwahre e altre attiviste e attivisti.

Manal e Nariman Al Tamini del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania sono state per anni delle leader dei Comitati Popolari non violenti, comitati attivi in diversi villaggi della West Bank che per anni hanno hanno organizzato iniziative di resistenza non violenta in Palestina. 

Nel villaggio di Nabi Saleh ogni venerdì per anni sono state organizzate manifestazioni a cui hanno partecipato gli abitanti del villaggio, internazionali e anche attiviste e attivisti israeliani.

A differenza di altri villaggi della Cisgiordania, dove i Comitati Popolari per la resistenza non violenta sono attivi, in queste manifestazioni nel villaggio di Nabi Saleh c’è una numerosa presenza di donne del villaggio e soprattutto una numerosa presenza di attiviste e attivisti israeliani.

Ricordo anni, fa quando avevo preso parte a una manifestazione, una scena in cui l’esercito di occupazione israeliano stava cercando di arrestare Manal e una decina di donne israeliane con il loro corpo l’hanno abbracciata e sono riuscite a non farla arrestare.

I militari israeliani cercavano di reprimere le manifestazioni con droni, carri armati, sparavano lacrimogeni, proiettili “non di gomma” e dai camion spruzzavano acqua putrida su manifestanti e le case del villaggio.

Sempre qui in questo spazio sono stati ospitati Ahmad Azza e Jannat Salayma attivisti dell’organizzazione Youth Against Settlements di Hebron un gruppo di azione diretta non violenta formatosi nel 2008, che mira a interrompere la costruzione e l’espansione delle colonie illegali israeliane attraverso la lotta popolare nonviolenta e la disobbedienza civile.

Sempre qui al Giardino ha portato la sua testimonianza Mahmoud Zwahre del Villaggio di Al Masara (vicino al Betlemme), membro del Coordinamento dei Comitati Popolari per la resistenza non violenta contro gli insediamenti israeliani e il muro di separazione. Mahmoud è stato arrestato più volte per il suo ruolo di leader e di attivista non violento.

Voglio ricordare queste testimonianze perché oggi più che mai c’è bisogno di far conoscere ciò che da anni avviene in Palestina. 

Per molte persone il conflitto palestinese-israeliano sembra essere iniziato il 7 ottobre 2023, tante…troppe persone non sono a conoscenza di ciò che avviene da 75 anni in Palestina, tantomeno della totale chiusura e dell’embargo che subisce la popolazione della Striscia di Gaza da 17 anni.

Senza capire questo non si riesce a comprendere la situazione attuale.

Le attiviste e gli attivisti palestinesi che sono stati ospiti qui al Giardino dei Ciliegi hanno portato la loro testimonianza  e hanno raccontato come si vive sotto occupazione, cosa vuol dire essere arrestati senza processo o capi di imputazione (detenzione amministrativa), cosa si intende in Cisgiordania per lotta non  violenta.

Ho fatto attivismo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dal 2010 al 2014 

In Cisgiordania ho visto ulivi bruciati da coloni violenti, ho visto corsi d’acqua inquinati dagli scarichi delle fabbriche israeliane, ho visto pastori e le loro pecore aggrediti da coloni e appoggiati dalla polizia israeliana, ho accompagnato uomini e donne palestinesi a raccogliere le olive perché sennò venivano attaccati da coloni armati, con altri attivisti e attiviste abbiamo partecipato alla costruzione di una moschea a Sussiya un villaggio beduino nelle colline a Sud di Hebron, la costruzione era stata fatta di notte in modo da non essere visti dai militari israeliani, due giorni dopo la moschea è stata demolita. 

A Gaza con altre attiviste e attivisti abbiamo accompagnato i contadini a raccogliere il grano, i loro campi erano al confine, nella buffer zone e venivamo sparati da cecchini israeliani e intimoriti con camionette e carri armati. 

A Gaza i pescatori venivano sparati e le barche sequestrate dalla guardia costiera israeliana.

Un giorno mi trovano nella spiaggia di Gaza city, zona Minà..e ho iniziato a parlare con due ragazze che ogni giorno andavano con grossi bidoni al mare per prendere l’acqua di mare per le faccende domestiche, perché nei rubinetti di casa loro non arrivava l’acqua.

L’acqua che arrivava nella casa dove abitavo era salmastra e putrida. 

Una cara amica di Gaza mi raccontava come la vita in casa veniva scandita da quando l’elettricità  arriva nelle case, se arrivava la notte lei si alzava e faceva le faccende domestiche e la lavatrice, i bimbi accendevano la tv per guardare i cartoni animati anche in piena notte.

A Gaza prima dell’attacco l’elettricità era disponibile solo 4-5 ore la giorno, chi poteva permettersi un generatore di corrente usava quello ma la maggior parte delle persone non lo aveva. 

Possiamo immaginare la nostra vita con 4-5- ore di elettricità al giorno?

Questo accadeva nel 2014 ovvero 10 anni fa la popolazione era già molto provata, depressa, senza speranza di un futuro migliore, vittima di continui bombardamenti.

2008-2009 Piombo Fuso morti 1400 palestinesi e 13 israeliani

2012 Pilastro di Difesa morti 177 palestinesi e 6 israeliani

2014 LInea di Protezione   morti 2251 palestinesi e 74 israeliani

Maggio 2023 33 palestinesi e 2 israeliani 

Da ottobre 2023 al 07/05/2024 sono morte circa 35,000 (di cui 14,500 bambini) (1139 israeliani), ferite 78,000 persone 8000 persone disperse

Arriviamo a quello che sta succedendo ora: Parliamo di stragi di bambini, raid mirati su scuole, chiese e moschee, vilipendio degli ospedali, attacchi ai corridoi sicuri al passaggio degli sfollati, chiusura dei valichi di frontiera per provocare carestia, prigionieri spogliati, legati, bendati, concentrati in stadi o piazze.

Vorrei portare questa testimonianza.

A febbraio sono stati portati in Italia tramite la Farnesina 320 persone si tratta di bambine, bambini che hanno necessità di cure o che sono stati feriti dagli attacchi israeliani questi/e sono stati accompagnati da mamme, babbi, nonne e zie.

Si tratta da bambine con patologie che necessitano di terapie come la Dialisi, altri che hanno subito diverse operazioni ad arti a causa dei bombardamenti.

Queste famiglie sono in attesa di ricongiungersi urgentemente con le loro famiglie, sperano di far arrivare in Italia le loro figlie e figli, mariti e moglie rimasti nella Striscia di Gaza. 

Sono famiglie spaccate che vivono con grande ansia quello che sta ancora succedendo nella  Striscia, una di queste donne ha una figlia che ha un grave diabete a causa di una EPATITE A, contratta per le scarse condizioni igieniche, e ora rischia la vita perché nell’ospedale dove è ricoverata, tenuta sul pavimento,  non c’è l’energia elettrica per far funzionare i frigoriferi dove si conserva l’insulina.

Questa bambina è accudita da sua sorella maggiore di 17 anni, che si occupa anche degli atri fratelli e sorelle, di cui una di tre anni, perché il padre si trova a Gaza Nord e l’esercito israeliano non gli permette di andare dalla sua famiglia.

Poi ci sono casi come quello di una bimba e suo padre che sono stati portati a Firenze e invece la madre, la figlia neonata e un’altra bimba ferita sono ricoverate in un ospedale negli Emirati Arabi, il babbo non riesce ad avere il visto per raggiungerle.

Poi c’è il caso di un bimbo di un anno e mezzo a cui gli hanno estratto numerose schegge e ha subito un intervento a un piede, questo bimbo è stato accompagnato dalla nonna, perché la mamma è morta sotto i bombardamenti, il babbo si trova nella Striscia di Gaza con il fratellino.

Queste sono alcune delle storie delle persone che sono state accolte in Italia in questi mesi, 320 persone.

Per ritornare al libro..Ho letto i racconti e le poesie all’interno dell’antologia, ho ritrovato in quelle parole l’amore per la terra, per la famiglia, per un popolo, per la vita.

Sono i racconti delle donne e degli uomini che ho incontrato in Palestina e in particolare vorrei ricordare la frase di un vecchio contadino di Gaza che io e altri attivisti e attiviste stavamo affiancando per potergli permettere di raccogliere il suo grano. 

Il vecchio mi ha detto: Gli ebrei hanno sofferto molto a causa della Shoah e noi li abbiamo accolti per quello che hanno vissuto e perché non avevano più nulla, ora se dovesse succedere la stessa cosa li ospiteremo ancora.

Io gli ho chiesto anche dopo quello che è successo?

SI

Vorrei concludere con le parole di Refaat Alareer intellettuale, poeta e insegnante di Letterature comparate e scrittura creativa presso l’Università Islamica di Gaza, cofondatore del progetto We ARE NOT NUMBERS realizzato per raccontare storie di vita quotidiana sotto assedio.

Refaat è stato il curatore di un libro GAZA WRITES BACK: Racconti di giovani autori e autrici da Gaza, Palestina. 

Una raccolta di 23 racconti, tanti quanto sono stati i giorni dell’operazione israeliana PIOMBO FUSO, svoltasi a Gaza 2008-2009

Refaat è stato l’insegnante di Rawand una mia carissima amica di Gaza e autrice di tre racconti all’interno della raccolta, Rawand mi ha sempre parlato di lui come un idolo per tutte le sue studentesse e studenti.

Refaat è stato ucciso a Gaza da un bombardamento israeliano il 6 dicembre 2023 

Riguardo a Gaza writes back Refaat scrive: il libro resiste al tentativo di annientare le voci emergenti di giovani autrici e autori, di far dimenticare le sofferenze dei martiri, di annacquare il sangue, di arginare le lacrime, e di soffocare le urla.

Refaat continua:

Il libro testimonia con chiarezza che raccontare storie è un atto di vita, raccontare storie è resistenza, raccontare storie costruisce la nostra memoria. Le storie e la narrativa consentono alle persone di dar senso al proprio passato e li collega al loro presente e possono dare forma a un sogno ancora non realizzato.

Vorrei utilizzare ancora le parole di Refaat:

Il senso della terra si sprigiona spontaneamente dal radicamento quando la relazione di qualcuno con la terra è minacciata da altri. Questi racconti sono pieni di quella passione con la quale i palestinesi si legano alla terra. La terra, lo spazio e gli alberi sono motivi centrali in Gaza Writes Back. Questo attaccamento alla terra e al suolo continua a crescere nonostante tutte le pratiche e le misure adottate da Israele per rimuovere i palestinesi dalla loro terra. Più Israele ci prova, più i palestinesi si legano alla terra.

Rimane una insistenza sulla vita e sulla determinazione a vivere, atto di SUMUD o tenacia che caratterizza la vita palestinese.

Il prolungato assedio politico, economico e intellettuale che Israele mantiene su Gaza ha dovuto far fronte a tagli dell’energia elettrica, isolamento, disoccupazione, mancanza di beni basilari, mancanza di libri, mancanza di medicine e di accesso alle cure mediche, estrema difficoltà nel viaggiare fuori di Gaza, e molto spesso dolore, morte o la perdita dei propri cari.

Refaat la chiama una Narrativa di contrattacco.

Nel racconto NON ESISTONO POESIE DI DISTRUZIONE DI MASSA Refaat scrive: 

Ma perché Israele avrebbe dovuto bombardare un’università? 

Per me l’unico pericolo che l’Università Islamica di Gaza rappresenta per l’occupazione israeliana e il suo regime di apartheid è che il luogo più importante di Gaza per sviluppare le menti degli studenti e trasformarle in armi indistruttibili. La conoscenza è il peggior nemico di Israele. Ecco perché Israele sta bombardando un’università: vuole uccidere l’apertura mentale e la determinazione a rifiutare di vivere con l’ingiustizia e il razzismo.  

Le ferite che Israele ha piantato nel cuore dei palestinesi non sono irreparabili. Non abbiamo altra scelta che riprenderci, alzarci e continuare la lotta. Sottomettersi all’occupazione è un tradimento dell’umanità e di tutte le lotte del mondo. 

Ultima poesia di Refaat prima della sua morte

Se dovessi morire fa che io sia un racconto (Refaaf Alrareeer)

Se dovessi morire,

tu devi vivere

per raccontare

la mia storia

per vendere le mie cose

per comprare un po’ di carta

e qualche filo,

per farne un aquilone

(fallo bianco con una lunga coda)

cosicché un bambino,

da qualche parte a Gaza,

guardando il cielo

negli occhi

in attesa di suo padre che

se ne andò in una fiamma

senza dare l’addio a nessuno

nemmeno alla sua stessa carne

nemmeno a se stesso

veda l’aquilone, il mio

aquilone che tu hai fatto,

volare là sopra

e pensi per un momento

che un angelo sia lì

a riportare amore.

Se dovessi morire,

fa che porti speranza

fa che sia un racconto!

 

18 maggio 2024

“La terra più amata”, Voci della letteratura palestinese.
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