[NOTA: usiamo il femminile plurale nella trascrizione]
Piacere di incontrarti.
Lo stesso per me, ciao.
Inizi questo libro, in italiano Vivere una vita femminista, e inizi dicendo… ti cito:
“Cosa senti quando senti la parola femminismo?”, e tu dici che è una parola che “mi riempie di speranza ed energia”. Parliamo di queste parole: speranza ed energia, mi piace la combinazione.
Sì, certo mi fa pensare alla lotta politica e senza dubbio alla difficoltà e al dolore che questa si porta dietro, ma in parte proprio per questo mi riempie anche di speranza ed energia perché mi ricorda… Sì, questa parola è un promemoria di tutte coloro che si sono alzate in piedi e hanno risposto, hanno detto di no alle strutture sociali esistenti, a quelle strutture in cui si sono trovate e penso che quando sento la parola femminismo, sento anche quella storia di rifiuto collettivo, la volontà di lottare per qualcosa, per qualcosa di più, lottare contro un sistema che in realtà punisce chi lotta. Quindi quando penso a quella parola, per me in qualche modo si porta una storia di lotta politica, sento quella parola e mi viene subito in mente quella lotta.
Tu inventi molte figure nel tuo libro… molto utili in questa storia di… La mia preferita è la guastafeste che è un misto di resilienza, testardaggine, creatività… e quindi da dov’è che viene lei, questa persona guastafeste?
Sì, è una bella domanda. Viaggio con la femminista guastafeste da molto tempo, quindi spesso penso a lei come a una mia compagna, e parlo con lei come a una mia compagna, anche se a volte parlo di me in quanto lei. Quindi può sembrare una figura molto personale, puoi quasi diventare lei ma, allo stesso tempo, viene da fuori, è vicina a noi, ma fuori da noi.
E penso sia importante perché la guastafeste femminista, anche se è da molto tempo che viaggio con lei, e ho scritto su di lei, pensato a me in quanto lei… Lei ha una lunga storia politica cominciata come uno stereotipo sulle femministe, e il motivo per cui rispondiamo al sessismo, al razzismo, alle molestie è perché stiamo provando a metterci in mezzo alla felicità altrui. Lo stereotipo delle femministe che sono piuttosto arcigne e forse persino miserabili è ciò che vogliono causare. Da un certo punto di vista è invitante quando pensi a… dei modi per far sì che le persone entrino in contatto con il femminismo, potrebbe essere piuttosto allettante distanziarsi da questa figura, “chi vorrebbe esserlo?”. E penso che la cosa potente del rivendicarla… non sei reindirizzata dal giudizio negativo nel prendere le distanze da lei: sei disposta a reindirizzare quella negatività e dici: “Wow, ok, se parlare di sessismo, razzismo, molestie, violenza ti rende triste… allora lo vogliamo fare, vogliamo renderti infelice, se questo è quello che ci vuole”.
E una cosa che ho notato da quando ho iniziato a parlare di guastafeste femministe è che mi sono accorta di come le persone reagiscono a questa figura che spesso emerge in situazioni piuttosto difficili e dolorose, sai causare l’infelicità delle persone che ami non è il posto migliore in cui trovarsi. Tuttavia quando le persone sentono parlare di lei, quasi si alzano in piedi e sembra esserci qualcosa di energizzante in lei, nell’usare quella parola che le persone possono sentire, e le persone fanno: “Sì, sì, sono io!”. Mi ricordo di una lettrice che mi ha detto, quando mi ha scritto una lettera: “Ho letto della guastafeste femminista e ho pensato ‘sì, sono proprio io’”. Penso sia qualcosa vicino al sollievo quando c’è una parola o una figura che dà un senso a una sensazione che avevi sentito in precedenza senza avere le parole per definirla.
Quindi penso che la figura della guastafeste femminista diventi un modo in cui diamo un senso alle nostre esperienze di intralciare, di diventare il problema. Ma lei diventa anche un modo per connettersi con le altre, e questo credo sia ciò che la rende una figura potente. È l’origine di quella connessione che è altrimenti diventerebbe qualcosa di molto difficile.
Poi tu rendi molto chiaro che la guastafeste in realtà sta reagendo, quindi non è lei che dà inizio a qualcosa. Sì, dà anche inizio a qualcosa ma, principalmente, sta reagendo a qualcosa
che sente che non è buono, quindi la figura della guastafeste femminista rivela, disvela qualcosa che solitamente viene tenuto segreto. Quindi ti obbliga ad andare oltre alle azioni che compi, e politicamente parlando è molto utile e volevo chiederti questo: usi molti verbi che accompagnano la figura della guastafeste e usi snap e andare in frantumi: parlami un po’ di questi verbi che metti, perché tu crei un vocabolario, un vocabolario politico, un lessico. Iniziamo con lo snap che va insieme a un gesto… e parleremo anche di questa idea che ho avuto leggendo il tuo libro: è teatro. Nel tuo libro posso già vedere la possibilità di portarlo in scena, non solo come cosa politica ma anche come un dialogo tra te, te stessa e i movimenti.
Quindi iniziamo con lo snap
Credo sia lo snap che l’andare in frantumi siano verbi piuttosto drammatici. Quindi per me ha senso che tu senta del teatro, in quelle parole e suoni c’è qualcosa di molto teatrale. Non avevo un piano, non avevo cercato un concetto o una parola, ma sono venute a me com … penso.. .stavo probabilmente guardando il film A question of silence e stavo pensando al momento dello sbrocco – snap – in quel film: lo sbrocco, quando queste tre donne semplicemente lo esprimono, tutto il risentimento che avevano tenuto dentro che non avevano espresso, è quel momento in cui lo lasciano andare… e il film mostra uno sbrocco violento: loro commettono un omicidio, ma c’è qualcosa nel modo in cui viene mostrato quel momento… stai tenendo tutto insieme, stai resistendo, sei resiliente… e poi snap: sembra soltanto un momento ma qualcosa si rompe e tutto quello che ti sei tenuta dentro esce. Quando ho visto quel film, si chiama proprio A question a silence, è proprio quello che dicevi prima, il silenzio, quelle cose a cui si reagisce che non sono necessariamente evidenti per le altre persone. Lo snap è un momento con una storia, un momento, una rottura quando qualcosa viene fuori ma in verità quel momento è connesso con tutti quei momenti precedenti in cui non hai detto niente, non hai reagito, non hai sbroccato. Quindi sempre…quando penso allo sbrocco, si tratta di sentire: questo è quello che puoi sentire, senti il suono dello schiocco –snap– ma probabilmente non hai sentito ciò che veniva prima, tutti quei momenti in cui lei è riuscita a sopportare, ci si è abituata. Questo dice qualcosa sullo snap e le tempistiche, e sullo snap e sul sentire: era molto suggestivo e mi ha permesso di pensare a molti dei modi in cui la narrativa femminista, la narrazione femminista ha mostrato lo snap, quei momenti in cui le persone non sono disposte a trattenere qualcosa. Ma fa anche pensare al modo in cui nella vita quotidiana di quella persona questi momenti di sbrocco ci stanno dicendo qualcosa sul tipo di mondo che non vogliamo. Non è necessariamente sempre un’azione pianificata o consapevole quando sbrocchi. Può essere una cosa molto corporea, viscerale: “Adesso basta, ecco, non ne posso più”. Quando penso a sentire lo snap sto spesso pensando anche a sentire i suoni del rifiuto, i suoni del dire “no” che non vengono spesso espressi a parole o in narrazioni coerenti: vengono fuori in altri modi. E uso l’idea dell’orecchio femminista nel capitolo sullo snap femminista in Vivere una vita femminista che è qualcosa che ha senso per me da quando ho iniziato a lavorare su Complaint!: che cosa significa diventare più allenate ai suoni del logorarsi e dell’arrangiarsi, e questo fa anche parte della storia dello snap. Quindi praticamente la parola viene dal guardare un film e dall’essere tra il pubblico e sentire le persone che reagiscono a questo film che mostra tutta la natura logorante del sessismo ordinario. E poi sentire il suono dell’audience, del femminismo che dice: “Ah sì, ho capito, l’ho sentito”. C’è qualcosa in quel suono: ho sentito la parola snap quando ho visto quel film, ho pensato allo snap, e lo snap mi ha permesso di viaggiare da quel film al pensare alla politica dell’esaurimento, all’arrangiarsi e a quello che ci vuole collettivamente per lo snap, per dire “no”.
Quello snap specifico me lo ricordo, me lo ricordo fisicamente: mi ricordo di aver sentito quel suono, ed è stata una gran risata da parte del pubblico. Ho visto il film a New York negli anni ‘80 e mi ricordo che nel momento dell’omicidio tutto il pubblico stava ridendo, e l’omicidio era un atto collettivo, non era individuale, era uno sbrocco: “Sì. È troppo”. Quindi veramente un atto collettivo. Quindi torniamo agli strumenti per il femminismo: questo snap è qualcosa che ognuna sente a un punto specifico, o più di una volta nella vita, ma poi diventa uno snap collettivo. Come mai? Qual è il trigger?
Beh sì è difficile sapere, teorizzarlo in maniera astratta. Che ci vuole? Ci possono essere così tanti affinché una persona arrivi allo sbrocco individuale, o forse lo esprime a qualcun’altra ma non accende quello spostamento collettivo. Ci ho pensato molto specialmente quando pensiamo al movimento politico che è così importante negli ultimi anni: se pensiamo al me too o al black lives matter, che cos’è stato in quel momento che ha fatto in modo che quelle parole facessero breccia e innescassero quel “no” collettivo. Certo, c’erano stati dei no collettivi anche prima, e degli snap collettivi prima, però deve esserci già qualcosa lì perché si diffonda e perché sia uno spazio quasi, uno snap nel senso di spazio che può facilitare e permettere ad altre di dire di no e far parte di un movimento che inizia a dire “no”: “no al razzismo”, “no alla violenza della polizia”, “no alle molestie sessuali”. Io non penso di poterlo teorizzare al livello di causalità storica nel senso di: “cos’è che porta a questo sbrocco, perché questo sì e non un altro”. Penso ci siano molte combinazioni di circostanze che sono impossibili da prevedere o anche solo di rappresentare in una singola istanza. Ci sono tante cose che devono essere al proprio posto perché uno sbrocco si inneschi in maniera collettiva ma quando succede, lo senti veramente, e tutte sappiamo com’è quando ti senti parte di un movimento politico, magari sei in strada a esprimere quel “no”, come ci si sente: la magia assoluta del fatto che puoi cambiare qualcosa, o che qualcosa sta cambiando, qualcosa che prima si pensava fosse inevitabile, “è così”, e quel qualcosa poi si modifica e ne hai la percezione facendo parte della collettività. Un altro modo di fare le cose è possibile, e questa energia, per tornare alla parola di prima, è straordinaria.
Andiamo a un’applicazione storica del concetto di snapping [scattare, sbroccare]: Sojourner Truth, il suo discorso con le femministe. Oppure anni dopo, bell hooks, un altro snapping quando ha scritto la sua tesi Ain’t I a woman?. È uno snapping molto provocatorio, perché è uno sbroccare tra donne, anzi proprio tra femministe, basato sul fatto che alcune donne sono totalmente bianche, altre sono totalmente nere e altre sono tra le due, tu usi la parola brown per definire te stessa, e quindi questo sbroccare tra donne… che politicamente è un concetto molto audace ma molto utile, e da lì anche tutto il concetto di intersezionalità etc. Non siamo tutte uguali.
Questo è importante, e certamente c’è una lunga storia di donne che contestano il modo in cui altre donne occupano il femminismo in quanto spazio, e quando hanno iniziato a contestare magari hanno sbroccato allo sfinimento di sentire che vengono citate sempre e solo donne bianche, o solo donne che citavano uomini eterosessuali, o quel che è, qualsiasi sia l’esclusione che viene messa in atto. Magari hanno sbroccato ma questo sbrocco non è stato preso bene, e una delle cose che la guastafeste ci insegna è come spesso le persone diventano molto difensive: “Questo è il nostro spazio, ponendo quella domanda o sollevando quella questione – razzismo, abilismo, transfobia, omofobia- sollevando queste questioni ci stai dividendo” come se mostrare una divisione significasse crearla. Per questo per me è stato importante pensare allo sbroccare come a qualcosa che in quanto femminista fai non solo in relazione a un mondo contro cui stai reagendo, ma come qualcosa che succede all’interno del femminismo. Il mondo femminista è costruito con gli stessi mattoni, gli stessi mattoni e acqua di altri mondi, e questo significa che coloro che hanno più potere di rappresentare se stessi, o il cui punto di vista viene preso più seriamente in altri contesti, allora quel vista sarà preso più seriamente anche nel femminismo. Ed è questa replica di quegli stessi muri che si incontrano nel mondo ma anche all’interno del femminismo che può essere incredibilmente deprimente e difficile. Eppure penso a quello sbrocco quando in realtà mettiamo in discussione il modo in cui gli spazi femministi sono occupati, e questo è qualcosa che dobbiamo imparare a prendere meglio, senza entrare sulla difensiva, trattando il femminismo come qualcosa che ci appartiene. Dovremmo ascoltare lo sbrocco quasi come un regalo politico, una possibilità di capire o di elaborare che cos’è il femminismo, per chi è, a che cosa serve. E come imparare l’una dall’altra nel modo in cui bell hooks, Sojourner Truth, Audre Lorde, e altre femministe nere hanno pensato: prestare attenzione alle differenze senza causare l’impossibilità dell’unità del femminismo, ma come una richiesta per un’attenzione femminista. Sai però molti di questi sbrocchi storici non sono stati presi molto bene. Una delle cose a cui stavo pensando mentre – adesso sto scrivendo il manuale della guastafeste femminista, che è una sorta di Vivere una vita femminista ma è più accessibile, un libro meno accademico – una delle cose a cui mi ha fatto pensare è quella che chiamo una storia dell’obliterare, il modo in cui a volte… c’è un esempio specifico che uso da questo libro degli anni ‘80 che è un libro di una femminista nera britannica e c’è questa storia lì che amo tantissimo di quando lei racconta di come erano a una delle prime conferenze internazionali delle donne a Bristol, e di come lei ha fatto questo punto sul razzismo, e di come avrebbe dovuto essere al centro delle rivendicazioni femministe, ma a un certo punto non era stato nemmeno registrato il fatto che fosse stato fatto, come se non lei non avesse detto nulla. E quindi c’è un modo in cui lo sbroccare può essere obliterato, ignorato, il tuo sbrocco non viene registrato, viene cancellato, dimenticato e quindi penso anche che parte del lavoro femminista sia recuperare quegli sbrocchi e di pensarli come una sorta di discendenza femminista a cui possiamo aggrapparci. Anche questo è lavoro politico.
E infatti parlando di questo, nel tuo libro ho trovato due punti molto interessanti sul dubbio e sugli inizi ricorrenti: quindi il lavoro non è mai finito completamente e quindi, se questo lavoro non è mai completamente concluso, non devi perdere la speranza e continuare a lavorare a dei nuovi inizi, mai uguale all’inizio precedente, e tu suggerisci di usare il dubbio come strumento, di non essere troppo sicure di sé, di quello che stavi facendo, pensando, dicendo e diventando, il che è cruciale altrimenti si diventa molto dogmatiche e, quando si diventa dogmatiche, si fanno gli errori….
Penso sia difficile perché la fiducia in noi stesse per molte di noi è stata minata dal fatto che ci è stato detto cosa non possiamo fare, chi non possiamo essere… sai parte della femminilità, nel modo in cui è stata costruita storicamente, è fatta per non farti avere fiducia in te stessa, o comunque meno fiduciosa rispetto al tuo diritto a dire qualcosa, al tuo diritto a stare in un posto e a prendere spazio. Io sono stata molto consapevole nel mio lavoro e nella mia vita di come a volte questa fiducia in noi stesse è la cosa per cui stiamo lottando, nel senso di avere il diritto di essere, fare e dire le cose così come siamo, usando le nostre parole. Questa fiducia in se stesse può diventare rigidità e presunzione, e tutte sappiamo quanto è stato difficile per le storie femministe su questa questione del fatto che alcune persone affermano con sicurezza il proprio diritto a occupare lo spazio. Qualcosa per cui politicamente dovresti lottare per essere in un posto, e poi diventi quel blocco, perché significa che il posto che prendi è più escludente per altre e quindi a volte dobbiamo perdere quella fiducia in noi stesse. E’ una cosa molto difficile da dire quando so che per molte persone la fiducia in se stesse è una vera lotta: dopo aver insegnato Studi delle donne per gran parte della mia carriera accademica, so che cosa significa dare alle persone questa fiducia nel loro diritto di essere all’università persino, di leggere quei libri, di usare “Io” negli scritti, o almeno questo è quello che penso. Queste sono delle battaglie, ma cercare di fare queste cose è allo stesso tempo importante e difficile ma, da un lato, stai imparando ad acquisire il senso della tua voce, il fatto che hai una voce, che lo spazio non viene deciso da altre persone ma anche, allo stesso tempo, devi diventare consapevole che la certezza, la certezza morale nello specifico, può portarti a diventare meno consapevole, meno sensibile a coloro che arrivano nel mondo con bisogni diversi.
Hai sollevato un punto molto importante perché la fiducia in se stesse non può essere la stessa per sempre, questa fiducia deve adattarsi alle situazioni altrimenti diventa qualcosa di molto vicino al potere che non è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno, non quel tipo di potere. Quindi volevo chiederti, visto che nel tuo libro c’è un capitolo intero dedicato a quello che ti è successo all’università, di quando a un certo punto te ne sei andata e parli del diversity work che in Italia è un concetto veramente nuovo, penso che dobbiamo ancora pensarci e quindi se puoi darci qualche spunto sul tuo lavoro nei termini di lavoro di diversity e gli ostacoli che hai incontrato, così forti che te ne sei dovuta andare.
La storia dell’aver lasciato è una storia lunga, ma lasciami dire due cose sul diversity work. Nel Regno Unito, la maggior parte della mia carriera è stata nel Regno Unito, diversity work significa qualcosa di piuttosto ufficiale, per cui le università hanno ufficialmente dei professionisti e professioniste che nominano per scrivere le policy, e i piani di azione che esprimono l’impegno dell’istituzione verso l’uguaglianza e la diversity. Molto di questo lavoro ha avuto inizio a partire dai cambiamenti legislativi, per l’Equality Act da parte del governo, che richiedono alle istituzioni di avere politiche di uguaglianza e piani d’azione, e questo ha portato a questo gruppo di persone che viene nominato dalle università per fare quello che chiamo diversity work, e queste persone saranno poi nei comitati sulla diversity svilupperanno delle nuove politiche, e così via. Spesso se sei un’accademica e una persona of color in queste istituzioni molto bianche che sono le università ti viene spesso richiesto di diventare ufficialmente una delegata della diversity. Può darsi che magari non ricevi una nomina a funzionaria sulla diversity ma ti verrà chiesto di partecipare al comitato sulla diversity per scriverne le politiche. Quindi cade su alcune persone di fare il diversity work, coloro che incorporano la diversity per l’organizzazione, spesso a causa di chi non sono: non sono bianche, non sono uomini, non sono etero, non sono cis, non hanno un corpo abile, e quindi finiscono nel comitato sulla diversity. Faccio questa battuta per cui più non- hai, più sono i comitati in cui ti ritrovi. Quindi il diversity work spesso è del lavoro in più che fai che può anche diventare un peso perché diversity work è spesso lavoro amministrativo che spesso per le università ha meno valore, quindi è un modo di guardare chi fa cosa nelle università e come poi le università si strutturano nell’essere per alcune più che per altre. Una delle cose su cui pongo l’accento in quella parte del libro – e anche nel mio libro precedente On being included che è basato su interviste a delegate della diversity – è che le organizzazioni, le istituzioni possono apparire come in favore della diversity, magari anche in modo scritto, possono aver scritto una dichiarazione di impegno per black lives matter e così via ma questo non significa che non siano ambienti ostili per quelle persone che incarnano la diversity in un modo o in un altro. Quindi spesso c’è questo impegno superficiale verso l’uguaglianza e la diversity, ma non si traduce necessariamente in quello che realmente succede, quindi molte di quelle storie in Vivere una vita femminista riguardano quello scarto tra come appaiono queste cose – il dichiarare l’impegno verso l’uguaglianza, l’uguaglianza di genere, l’uguaglianza razziale – e poi quello che succede realmente nelle istituzioni, e come queste possono realmente essere degli ambienti ostili.
La storia di come ho lasciato [l’università] è in qualche modo una storia sul diversity work, ma è anche una storia rispetto al modo in cui, pensando specificamente alle molestie sessuali come problema istituzionale, quando ho iniziato a lavorare con gruppi di studenti sulle molestie sessuali, una delle cose più degne di nota è stato vedere quanto era nascosto: prima parlavamo di segreti, ma… L’istituzione non vuole ammettere che c’è un problema.
Così queste situazioni possono rendere conto di quando dicono di impegnarsi sull’uguaglianza, dicono quanto sono bravi con l’uguaglianza di genere, con l’uguaglianza sulla base della razza, con l’uguaglianza in genere ma, allo stesso tempo, possono tenere nascosto allo sguardo pubblico tutti i tipi di violenze che dimostrano che non fanno esattamente ciò che dicono per quel che riguarda i modi concreti in cui dare supporto alle persone. Così il gap tra ciò che appare e ciò che è e quello in cui cadi, e tengono segreto il problema: in pratica lo nascondono, e la diversity diventa un modo con cui lo nascondono. Noi provavamo ad avere un riconoscimento pubblico che l’università prendesse veramente sul serio le molestie sessuali come problema istituzionale, e non siamo riuscite ad avere questo riconoscimento. E penso che questo fosse uno di quei momenti di sbrocco [snap] in cui ho detto: “No, non ne posso più. Non posso farlo più”. È stato un momento in cui dare le dimissioni per protestare contro quel silenzio.
Sono rimasti in silenzio e non mi hanno chieso: “Perché dai le dimissioni?”, così ho condiviso le ragioni delle mie dimissioni sul mio blog, e loro hanno reagito dicendo: “Non abbiamo un problema con le molestie sessuali, noi siamo un’università per l’uguaglianza”, e hanno tirato fuori i documenti sull’uguaglianza. Ho avuto bisogno di diventare la guastafeste istituzionale, come hai detto perché, quando porti fuori qualcosa che diventa pubblico ed era stato tenuto segreto, stai contraddicendo l’autorappresentazione dell’università che dice di essere brava sui temi dell’uguaglianza, della diversity, eccetera. Abbiamo un sacco di dati su come l’università ha fallito nel rispettare quell’impegno preso verso l’uguaglianza e la diversity.
Rispetto a questo, al tuo lavoro sulla diversity, c’è un’altra formula che hai creato e che è molto di ispirazione: gli sweaty concepts, che in italiano diventa “concetti sudati”, ha molto a che fare con i corpi. I corpi sudano, non pensiamo mai ai cervelli che sudano, o alle anime che sudano, o alle menti che sudano. Hai inventato questa formula, “concetto sudato”: puoi descriverla?
Non è il modo in cui di solito si pensa ai concetti, e in parte è proprio questo il punto. Quando pensiamo a come per esempio in filosofia è di solito presentato un concetto, è che è originato dalla mente: una mela cade dal cielo, e il filosofo sviluppa il concetto, l’idea, della gravità. Il concetto è spesso rappresentato come generato da una coscienza senza corpo, un incontro uno a uno tra un uomo e il mondo.
Quando penso al lavoro che per me è stato fonte di ispirazione, un lavoro arricchente da un punto di vista concettuale penso in particolar modo alle opere femministe nere, specialmente a quelle di Audre Lorde. Penso che quel lavoro sia profondamente concettuale, perché cerca di portarci a pensare in maniera diversa, a comprendere diversamente il mondo, facendo emergere qualcosa che non è presentato di solito alla nostra coscienza. È lavoro concettuale, ma il concetto non è astratto: è proprio nello sforzo di stare nel mondo. Quando Audre Lorde descrive alcuni degli incontri che ha, incontri che descrive in Sorella Outsider, incontri di razzismo nella metropolitana, negli incontri viscerali che, ci dà così tante informazioni utili su come lavora il potere, su come spesso gli spazi diventino bianchi, attraverso le reazioni della gente nei confronti di una bimba nera, del suo corpo, come se il suo corpo fosse uno scarafaggio, qualcosa che porta sporcizia e malattia. Quindi la reazione a quel corpo rende quello spazio bianco, attraverso un brivido che fa accapponare la pelle. Ed è così che lei mi insegna come spesso le forme di potere funzionano attraverso il corpo in un modo che… ciò che voglio dire, è che a volte le persone guardano al lavoro di Audre Lorde non come lavoro concettuale ma come se fosse descrittivo, dicendo che è semplicemente una storia. Io voglio dire che si tratta invece di lavoro concettuale: ci insegna come un concetto sia generato proprio dal sudore, dalla fatica di essere in un corpo che è identificato come quello che causa pericolo o reca danno. Il sudore conta. Pensando al corpo, a come i corpi funzionano, a come noi stiamo nel mondo in quanto corpi, è qualcosa che conta veramente. Riguarda anche il modo in cui produciamo sapere: gran parte del sapere non è qualcosa che acquisisci ritirandoti dal mondo in uno spazio di contemplazione, ma hai del sapere perché cerchi di trovare un senso del mondo mentre ci stai dentro, nel mezzo del dramma, della situazione, della crisi. È come un gioco, è giocoso, in quanto concetto di concetti è giocoso. Questo deriva da molte filosofe femministe che ci hanno incoraggiate a pensare alle menti e ai corpi non come separati, ma assieme, che ci hanno incoraggiato anche a pensare alla dimensione corporale, alla natura emozionale di molto sapere. è un modo inconsueto di pensare ai concetti, ma in qualche modo ha una certa storia femminista. Questo è quello che penso.
Ascoltandoti, stavo pensando: forse questo sudore arriva in modo molto limpido da corpi, in modo molto lucido da corpi che non sono corpi bianchi.
Sì, di solito impariamo dalla storia della filosofia occidentale come alcune persone vengano ridotte a corpi, il corpo nero ad esempio, non-bianco, e il modo in cui… la trascendenza della natura razzializzata, o la natura di genere della trascendenza. C’è molta filosofia femminista su questo, quell’imminenza dell’essere dentro e non trascendere un dio superiore, il fatto di essere l’altra, o di essere resa l’altra. Possiamo pensare a del fantastico lavoro su questo, e penso ad esempio a Il secondo sesso. Penso che sì, che quelle che sono state ridotte a corpi, possono essere coloro che sono nel posto migliore per conoscere il modo diversamente.
Sesso/genere.
Sì, assieme.
Classe e razza. E ovviamente tutto il resto.
Per me ha molto a che vedere con Marx e con il materialismo storico. Ho pensato molto al lavoro, allo sforzo, al corpo che lavora, al fatto che molte libertà dipendano dal lavoro svolto da altre persone, il lavoro fisico di mantenere in vita un’esistenza, come i lavori di casa, o il lavoro di cura, o il lavoro domestico. Penso che sia un commento leggermente tangente, in qualche modo, ma mi ha fatto pensare al libro “Of woman born” in cui Adrienne Rich parla dello sforzo di essere una scrittrice perché suo figlio continua ad allontanarla dalla scrivania, come il lavoro di prendersi cura della prole, ma questo è il lavoro che deve fare mentre svolge il lavoro di scrittura. Deve continuare a lottare per avere tempo per sé. Se il sapere è generato da coloro che devono lottare per riuscire a stare alla scrivania per avere il tempo di fare quel lavoro, allora il sapere apparirebbe in modo diverso. Secondo me molto sapere è generato da persone che hanno altre persone che fanno il lavoro per loro, e così loro hanno il tempo per la contemplazione, il tempo di stare seduti alla scrivania scrivendo i libri di filosofia. Se siamo noi quelle che stanno facendo il lavoro, i lavori di casa e gli altri tipi di lavoro di cura, allora sì che i concetti diventano sudati.
Questa è una rivoluzione copernicana, un modo veramente diverso di vedere le cose. Perché ad esempio molto spesso noi donne pensiamo che la prole sia un ostacolo: no, sì, no, sì, ma producono anche molta intelligenza. Dobbiamo pensare diversamente. Tu stavi citando Adrienne Rich: e che cosa diciamo su Grace Paley? Diceva lo stesso: era solita scrivere al tavolo della cucina, di notte, quando la prole dormiva, motivo per cui la sua scrittura aveva una sostanza. Per questo, e non al contrario.
In ogni caso, cambiamo drasticamente argomento: a un certo punto, nel tuo libro, parli di happiness, e dai l’etimologia della parola. In italiano, happiness diventa “felicità”: abbiamo un’etimologia molto diversa, quindi vorrei che presentassi l’etimologia di happiness che è molto più interessante ed utile come strumento.
Sarebbe anche interessante sentire l’etimologia del termine in italiano, me la puoi raccontare tu. Ho scritto il libro The promise of happiness [La promessa della felicità, non tradotto in italiano] molto tempo prima di Vivere una vita femminista. È un libro che parla della storia della felicità, di come possiamo riscrivere quella storia dal punto di vista delle persone considerate dannate, miserabili. Ho raccontato la storia dell’etimologia: viene dall’inglese medio, hap, che significa chance [“caso, imprevisto”]. In qualche modo una delle domande di ricerca che ha dato forma a La promessa delle felicità riguarda il modo in cui la felicità ha perso il suo lato imprevisto. Nella cultura angloamericana, diciamo così, la felicità non riguarda tanto il caso: spesso si ritiene che sia ciò per cui devi lavorare, che ti devi guadagnare e meritare. Devi esserne degna, come se fosse una virtù e non qualcosa che ti capita. Questa era una delle definizioni di felicità della psicologia positivista: la felicità non è ciò che ti capita, è ciò che produci per te. Anche se l’origine è il caso, l’imprevisto, il modo in cui usiamo questa parola è molto lontano da questo. Volevo quindi spiegare come la felicità avesse perso il suo imprevisto, e si trattava di una specie di progetto queer: rimettere l’imprevisto nella felicità, rendere la felicità come molto più legata all’imprevisto e alla possibilità, e meno legata al fatto di meritarsela. Ed è così che spiego come la storia della felicità sia diventata un dispositivo di raddrizzamento [NdT: in inglese straight significa sia dritto che eterosessuale, quindi il raddrizzamento significa sia andare per la strada dritta che andare per la strada eterosessuale]: ciò che ottieni vivendo la tua vita nel modo giusto e facendo le scelte giuste. Ne La promessa della felicità c’è un capitolo che si intitola Unhappy queers [Queer infelici], in cui si parla di tutte le risposte che danno genitori quando hanno figli/figlie queer: “Oh no, sarai infelice!”. Quindi i genitori non sono infelici perché la figlia è queer, ma perché la figlia queer sarà infelice. Si pensa che la felicità debba richiedere certe scelte specifiche, certe traiettorie, e quindi come modello è diventata un dispositivo di raddrizzamento. Non è solo che ha perso il suo imprevisto, ma proprio che è stata definita contro di noi. Il modo in cui la felicità condivide la sua origine con hap [imprevisto], con happenstance [evento fortuito] perhaps [forse], haphazard [a casaccio]… e io voglio riportare l’imprevisto nella felicità. Ma, per farlo, devi fare un sacco di lavoro a causa quanto questo è stato definito in contrasto con noi.
A un certo punto hai detto qualcosa tipo: “Se questa è la felicità, ho il diritto a essere infelice”.
Altre due domande e poi ti lascio. Alla fine del libro ci sono due capitoli: uno dedicato al kit della guastafeste, un kit vero e proprio in cui nomini diversi strumenti. E il capitolo finale è quello dedicato al manifesto: abbiamo bisogno di un manifesto. Puoi descrivere il kit della guastafeste e poi spiegarci come mai pensi che i manifesti siano ancora degli utili strumenti politici?
Sì, penso che l’ordine fosse abbastanza importante: prima il kit di sopravvivenza, e poi il manifesto. Ciò che suggerisco è che prima di iniziare ad articolare in maniera chiara e diretta un’ambizione politica, dobbiamo prima di tutto sopravvivere. Il kit deve molto a Audre Lorde in così tanti modi (40.12), ed è organizzato secondo un presupposto: per molte la sopravvivenza diventa un progetto politico. In un mondo che rende la sopravvivenza così difficile, la sopravvivenza diventa ciò che facciamo nel nostro vivere una vita femminista, e scopriamo con le altre e una dall’altra che cosa abbiamo bisogno di fare per sopravvivere. E con sopravvivenza non intendo solo il rimanere in vita: intendo mantenere vive le nostre speranze politiche, mantenere viva la nostra dedizione politica. Può essere costoso essere una femminista quando stai all’interno di un’istituzione e sei quella che lotta contro le molestie sessuali, o quando in casa quando metti in discussione il modo in cui le persone organizzano il proprio lavoro domestico. Dato che può essere costoso, dobbiamo trovare il modo per sopravvivere insieme. Questa è l’idea che sta alla base del kit di sopravvivenza. Mi piace l’idea di un kit vero, tipo una borsa, in cui metti dentro cose di cui sai di avere bisogno per mantenere vive le tue speranze, per continuare ad andare avanti con le tue speranze. In un altro libro, ho trattato il tema dell’utilità: qual è lo scopo della mia borsa? E c’è un momento in cui penso alla borsa stessa come a un contenitore di cose che ti permettono di andare avanti. Ed è così che penso anche alla memoria femminista, a ciò a cui ci aggrappiamo, ai ricordi che abbiamo, alle cose che impariamo e che ci danno una sorta di senso di uno scopo femminista. Quindi è molto interessante che il kit di sopravvivenza sia qualcosa a cui le persone hanno risposto: ci sono state molte persone che mi hanno mandato lettere, o che hanno condiviso i kit di sopravvivenza che hanno fatto come parte di una lezione sugli studi di genere, e hanno condiviso le loro borse di cose: i libri che sono piaciuti, o le foto di qualcosa che ricorda un incontro politico veramente importante a cui hanno partecipato, o cose del genere. Mi piace molto l’idea che sia così materiale, che unisca questi ricordi, questi oggetti, queste connessioni a passati alternativi, e che li teniamo con noi. Quindi ha a che fare con ciò che abbiamo bisogno di tenere con noi per continuare ad andare avanti.
E il Manifesto… volevo davvero… mi piace molto il genere letterario del manifesto, il fatto che sembri avere a che fare con il futuro, con ciò che non siamo disposte a fare. Ho organizzato le dieci frasi che compongono il mio manifesto della guastafeste attorno alla volontà: “Non sono disposta a fare della felicità la mia causa”, e riguarda ciò che sono disposta a spezzare per non danneggiare o svalorizzare le altre. È un impegno non soltanto rispetto al futuro che vorresti, ma anche rispetto a ciò che sei disposta a costruire per realizzare quel futuro. Ma volevo anche pensare ad altri manifesti, come Manifesto S.C.U.M., perché ciò che rendono manifesto è un’affermazione di impegno e dedizione rispetto al futuro, rispetto a ciò che sei disposta a fare affinché quel futuro conti grazie a ciò che riconosci come esistente: la violenza che già esiste e che è profondamente strutturale. Il futuro non è qualcosa di lontano, laggiù, ma riguarda il presente. All’inizio hai nominato la speranza, e penso a come la speranza riguardi certamente il fatto che un altro mondo è possibile, ma descrivo anche il concentrarci su ciò che sta alle nostre spalle, riguarda la storia di coloro che hanno detto di no. La cultura femminista ha un manifesto, ed è uno, perché il guastare le feste è un segno del fatto che ciò a cui reagisci, il mondo a cui ti opponi, esiste ancora, e dobbiamo lottare proprio a causa di ciò che ancora esiste. È un modo per guardare avanti ma anche indietro, guardare al presente come eredità di tutte quelle storie. Penso che sia per questo che il manifesto per me è veramente importante: racconta ciò che sono disposta a fare considerata la storia che continua e che non è finita.
E non è un manifesto teleologico, è un manifesto ora dal passato per il futuro. Un’ultima cosa: le guastafeste migliore che hai in mente, parlando da un punto di vista storico e politico… ad un certo punto per esempio nomini Emma Goldman e quella frase classica “Se non possiamo ballare, non è la nostra rivoluzione”. Ce ne sono altre: nomini Audre Lorde, parli molto di bell hooks… chi altra?
Interessante che nomini Emma Goldman, non conosco molto bene il suo lavoro ma penso che sia una frase molto famosa “Non mi unirò alla vostra rivoluzione se non posso ballare”, penso in verità che sia stata citata in maniera errata nella versione originale e spero sia stata corretta ma questo è solo un piccolo appunto. Ciò che penso sia interessante a questo riguardo è che uso la figura dell’aliena affettiva che è in realtà un concetto da La Promessa della Felicità ma penso sia anche in Vivere una vita femminista per cui tu sei alienata dal modo in cui vieni toccata dalle cose. Dal punto di vista della guastafeste che di solito è che non si sente felice grazie alle cose giuste ma può anche avere a che fare con la necessità di non essere tristi, di non essere tristi al momento giusto. Penso questo sia piuttosto importante, come è successo recentemente nel Regno Unito quando è morta la regina Elisabetta: c’era questo lutto obbligatorio e se non esprimevi questo lutto, questo dolore nel portargli rispetto, essendo in silenzio nel criticare la monarchia allora diventavi un’aliena affettiva, ma anche profondamente patologizzata. Quindi penso sia molto interessante quando pensiamo alle guastafeste femministe e alla storia: non è guardare a quelle che erano veramente miserabili o che non erano felici per le cose giuste, ma è soltanto che coloro che non erano disposte a sentire, parlare e agire nel modo in cui ci si aspetta che tu senta, parli e agisca… questo può essere il ballare nella rivoluzione tanto quanto l’essere tristi ma non per la monarchia ma forse essere tristi per qualcos’altro. Penso ci siano bellissimi modi diversi in cui la guastafeste emerge da un punto di vista politico, una ribellione a un ordine di esprimerti e sentire in un certo modo. Sì, Audre Lorde la nomino molto: non posso nemmeno iniziare ad esprimere quanto sia in debito nei suoi confronti per il mio lavoro. Penso una cosa importante, cioè Lorde non usa la parola guastafeste, è una parola che uso io, per me è molto importante riconoscere che la parola non proviene da quel lavoro che mi ha fortemente influenzato ma che io ho trovato qualcosa in quel lavoro che mi mette in contatto con la guastafeste, certamente c’è molto di più. Penso una cosa molto importante di Lorde è quell’essere disposta a parlare di dolore, la difficoltà non di allontanarsi da esso ma in realtà di andare proprio in quella direzione, ciò che rende difficile l’essere al mondo. E questo non viene mai a discapito di quello che lei chiama l’erotico, di un desiderio di giustizia, di amore, di relazioni, di connessioni, per un mondo migliore. Penso che questa combinazione la renda per me veramente un’ispirazione importante per la guastafeste e quando vedo i film su di lei che la mostrano mentre balla, canta e mangia c’è questa sensazione di vita, è molto positiva. E questo può sembrare molto lontano dal repertorio della guastafeste ma non penso sia così. Ho anche provato a mostrare che essere una guastafeste significa anche essere piene di gioia perché non stai seguendo i classici copioni della felicità, non stai seguendo quello che ti dicono di essere ma stai aprendo, espandendo quello che significa esserlo, e c’è qualcosa che è molto vitale in questo. Io sono cresciuta in Australia, e questo significa per me che la mia esperienza primaria nel crescere è stata in un paese colonialista, e per questo ha molto influenzato il mio lavoro il femminismo indigeno, e penso a Aileen Moreton-Robinson che ha scritto un libro in Australia che si chiama Talkin’up to the white woman, una critica del femminismo bianco australiano, che in quanto opera femminista è molto all’interno degli affetti positivi, e delle storie felici e d’amore. Lei è stata un’ispirazione guastafeste importante e io e lei abbiamo parlato insieme della figura della guastafeste femminista indigena, e cosa significa essere una guastafeste femminista indigena, e la relazione della guastafeste femminista indigena con la guastafeste femminista nera e le guastafeste femministe e così via. Ce ne sono altre che mi hanno influenzata, e prima ho nominato una femminista britannica nera, e c’è anche Gail Lewis che vive nel Regno Unito, è qualcosa del tipo… Cce ne sono tante, ci sono tante femministe lì fuori e quindi penso che tutte scriveremo il nostro kit di sopravvivenza, che ovviamente dovremmo fare e così metteremmo insieme tutte queste diverse influenze. Non che siano delle guastafeste ma la questione non è chi è o chi non è una guastafeste di preciso, è più come ci facciamo ispirare dalle femministe che sono venute prima di noi e il modo in cui portiamo avanti delle istanze politicamente e come questo può avere a che fare con la rabbia, il rifiuto del mondo com’è, ma c’è anche con la speranza, e la gioia e l’immaginare il mondo come potrebbe essere, e questo è quello che finirebbe nel nostro kit di sopravvivenza della guastafeste.
Grazie per tutto Sara.
Un piacere, mi dispiace non essere lì con voi di persona
Avremmo altre occasioni.
Solidarietà a per tutte.
[Trad. a cura di Marta D’Epifanio e Beatrice Gusmano]
Antonella Petricone, Omaggio a Liana Borghi
Nel 2003 ho partecipato al laboratorio di mediazione culturale di Villa Fiorelli “Raccontarsi” ed ho conosciuto Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, organizzatrici ed ideatrici del laboratorio. Un laboratorio ideato dalla società italiana delle letterate, dal giardino dei ciliegi di Firenze e dall’università di Firenze.
Il mio primo contatto con Liana è avvenuto attraverso l’iscrizione al laboratorio, avevo vinto una borsa di studio e Liana mi aveva dato come compito quello di scrivere una mia autobiografia.
Non ero ancora molto avvezza alla scrittura autobiografica, non sapevo che quel primo incontro con me stessa avrebbe aperto un orizzonte nuovo e straricco di intersezioni che avrebbe sconvolto positivamente la mia vita e la mia pratica politica. Quel compito mi terrorizzava, ancora più l’aspettativa che Liana riponeva nel chiedermi, fin da subito, di soddisfare una richiesta che avrebbe riempito lo spazio tra me e lei. Da quella fatidica estate tante altre ne sarebbero seguite e tutte segnata da quell’amore e da quella cura appassionata con cui ci chiedeva di “esserci”, riempirlo davvero lo spazio. Uno spazio che ha assunto da subito le sembianze di uno stregatto e che ha segnato la relazione tra Liana e noi acrobate, il collettivo politico affettivo nato da quella prima esperienza.
Lo stregatto, il sorriso inquietante e affascinante di qualcosa che va e viene, le intermittenze che ho imparato a collocare nel mio agire quotidiano, la capacità di essere dentro e fuori e di fare dello spaesamento un osservatorio privilegiato di analisi e di scoperta.
Quello stregatto che nel ragionamento di Liana, mi ha insegnato a guardare da un margine che si sceglie e si privilegia, a vedere le proprie dicotomie e scioglierne le rigidità. Vuole dire aprirsi all’altra/o da sé e farne un’esperienza performativa.
Dentro questa affettività performante, che è diventata la cifra della complessità appresa da Liana e da Clotilde, ho imparato a ri/conoscermi in modo più autentico, a sentire di far parte di una storia politica che sarebbe durata anni e che ha portato alle radici della scuola estiva di Befree (a Liana e Clotilde devo questo immenso regalo che mi ha portata ad organizzare quest’estate la dodicesima edizione di una scuola che non sarebbe mai nata senza di loro).
Da sempre la figurazione dello stregatto, scoperta grazie a Liana, ha segnato il mio nuovo luogo di appartenenza. Il suo sorriso, lo spazio che apre alle sue molteplici possibilità, è il sorriso che me la ricorda, ed è attraverso quel sorriso che le rendo omaggio nel mio piccolo contributo al libro in sua memoria ma anche qui, con voi.
Marco Pustianaz “Eredità, trasmissione, memoria. Lavorare con Liana senza Liana”
Ho scelto di evocare nel titolo tre termini tra loro collegati che, nell’apparente semplicità del loro significato quotidiano, hanno tuttavia la capacità di interrogare profondamente il motivo che ci ha riunite qui. Interrogandomi sulla paradossale contiguità di presenza e di assenza (con Liana, senza Liana) spero di poter suggerire un modo per abitare attivamente il nuovo spazio in cui Liana ci ha lasciato – uno spazio improvvisamente vuoto, eppure così pieno. In effetti, il legame paradossale che ci unisce nel luogo che le era caro, il Giardino dei Ciliegi, è costituito non solo dal fatto di essere rimaste senza Liana, ma di sentirne letteralmente la mancanza. Così, la sua assenza si fa sensibilmente presente, nello stesso momento in cui la sua presenza è acutamente assente. Come abitare in questo chiasmo senza essere ridotti al silenzio e all’impotenza?
Credo che la strada per farlo sia quella di mettere a frutto sia la continuità della presenza sia la discontinuità dell’assenza, e farlo integralmente: da un lato, riconoscendo quella contiguità di assenza e presenza nella vita che abbiamo parzialmente condiviso con Liana (una vita che ci pare adesso appartenere solo al “passato”), dall’altro, riconoscendola nella vita che non possiamo più condividere con lei (una mancanza che ci pare definire il nostro “presente”). Vorrei suggerire come l’operazione della memoria permetta di connettere queste dimensioni violentemente opposte, riconoscendo l’ombra dell’una nell’altra. Non credo sia puramente questione di “elaborare il lutto”: piuttosto quella di riconoscere nel lutto una particolare modalità utile a riattivare, persino di fronte alla morte, quella temporalità aggrovigliata che è parte integrante della vita (umana?). Il lutto è risorsa vitale. È proprio la nostra posizione di superstiti – la posizione che non si sceglie – a richiederci un’adesione convinta alla costruzione di una temporalità plurima, in cui Liana possa essere sia presente che assente: una temporalità all’insegna dell’asincronia. Non è forse l’asincronia quella che può permettere di lavorare con e senza, ignorando la necessità tirannica di una sincronizzazione a tutti i costi, di un allineamento senza faglie, senza cesure, senza ritardi? Senza l’asincronia, quale speranza avremmo di pensare varchi temporali e di sentirli, all’opera sia dentro il presente che tra il presente e il passato?
Ma prima vorrei dire qualcosa sull’eredità e sulla trasmissione, sulla loro seduzione e sui loro limiti. In particolare, dirò qualcosa sui limiti di una logica ereditaria e genealogica, proponendo di modificarla proprio a partire dalla difficoltà di nominare l’eredità di Liana. Tale logica riguarda sia la relazione interpersonale – in questo caso, il possibile significato del riconoscersi “eredi di Liana” – sia la relazione storica tra generazioni. L’intreccio tra queste due dimensioni è assai complicato, così come è complicata l’identificazione tra la singolarità di un percorso soggettivo e l’esperienza di “una generazione”. Il fatto che il femminismo (soprattutto bianco) sia stato spesso temporalizzato secondo una logica di successive “ondate” non rende meno problematica la reificazione di un’eredità generazionale. Eppure è difficile non cedere alla seduzione di una naturalità nel rapporto di eredità e di trasmissione tra una generazione e l’altra, soprattutto quando si tratta di generazioni di movimento con la loro particolare eredità collettiva, materiale e immateriale, fatta di pratiche, linguaggio e relazioni.
A differenza di Liana, nata nel 1940, io appartengo alla prima generazione che non ha “fatto” il Sessantotto, e a malapena il Settantasette. Forse per questo motivo, la mia alleanza con Liana mi sembrava ricadesse naturalmente nella logica di un’eredità generazionale, come se la generazione che veniva dopo dovesse essere la naturale erede di quella precedente. Per lungo tempo ho identificato in Liana (e in Paola di Cori, la storica femminista mancata nel 2017) una sorta di madre surrogata femminista. Non riuscivo a non pensare in termini di eredità! Analogamente, ero portato a leggere la mia relazione con loro in termini di debito (e quindi anche di credito), mentre oggi sono sicuro che né Liana né Paola fossero interessate a relazionarsi con un discendente, né tanto meno con un figlio adottivo o un allievo; in altre parole, non desideravano certo un erede. Credo invece che, proprio riconoscendo il disallineamento tra le nostre generazioni, desiderassero il piacere di aver trovato un “con-temporaneo”: un compagno con cui produrre insieme un tempo comune intessuto di asincronia.
Essere contemporanei è più impegnativo che non essere eredi, poiché la responsabilità dell’erede non trova riscontro nella libertà dell’essere contemporanei l’uno per l’altra. Il discorso seducente dell’eredità e della discendenza genealogica o generazionale si rende facilmente complice di una narrazione che impedisce di fatto a soggetti disallineati o addirittura divisi da cesure o traumi storici di condividere la cosa più preziosa che si ritrovano ad avere: la rispettiva asincronia. Solo condividendo l’asincronia tali soggetti possono diventare contemporanei e produrre in questo modo uno spazio/tempo comune. Quest’ultimo non è altro che il “presente”, composto da tutte le temporalità asincrone che lo incrociano. Il presente, infatti, è un’intersezione, lo spazio/tempo del potenziale incontro fra temporalità multiple e sovrapposte, impossibili da definire in termini di eredità lineare. Il presente è lo spazio/tempo multiplo in cui sperimentare la possibilità di essere contemporanei. Non ha a che fare con l’astrazione della teoria ma con la pratica del “fare tempo insieme”.
Non intendo disconoscere gli ambiti etico-giuridici nei quali porre la questione dell’eredità può essere importante e persino inevitabile. Da una parte ci sono questioni di trasmissione materiale, che riguardano il “patrimonio” intorno a cui l’erede o gli eredi definiscono la loro azione. L’eredità è sempre anche questione di proprietà, poiché si eredita quello che è stato accumulato e che è legato al nome di chi è mancata. Ma non meno importanti sono le questioni di patrimonio immateriale. Come identificare tale eredità? Apparteneva a un singolo individuo? Può essere trasmessa? Cosa vuol dire ereditare un patrimonio intangibile e indefinibile come può essere un pensiero, un modo di essere e di vedere il mondo, una progettualità, un lavoro di relazione? Nel caso poi di Liana, per la quale il femminismo era un cantiere continuamente aperto e il suo lavoro sempre inconcluso e aperto al futuro, appare ancor più arduo identificare qualcosa di preciso rispetto a cui raccogliere un’eredità. Forse il problema è che pensare in termini di eredità invita alla costruzione retrospettiva di una linea di discendenza secondo la logica della genealogia e della generazione. In questa prospettiva chi viene prima lascerebbe il posto a chi viene dopo: un avvicendamento ordinato che permette all’erede di sostituirsi al defunto in quanto proprietario responsabile di un lascito. Il posto lasciato vacante è virtualmente occupato da tutto ciò che il defunto ha “lasciato”. Ma nel caso di un lascito indefinito come il femminismo di Liana, che cos’è che un’erede dovrebbe riconoscere come sua responsabilità di cura? E una volta riconosciuta la natura di questa eredità, come dovrebbe conservarla?
Questo lascito – è chiaro – non può essere identificato in nessun modo come un qualcosa di posseduto. L’erede in questo caso sembra ereditare piuttosto un modo di abitare il mondo. Anzi, nella misura in cui un modo di stare al mondo equivale tout court a un “fare mondo”, l’erede sarebbe debitore di un’eredità persino spropositata: nulla di meno che un mondo intero. Che questo sia il vero significato di un’eredità femminista lo conferma il titolo dell’ultimo libro su cui Liana ha lavorato insieme con me e con le traduttrici prima di lasciarci: Vivere una vita femminista di Sara Ahmed – un libro che letto da superstiti è quasi inevitabile interpretare come un testamento di Liana per interposta persona. Vivere una vita femminista significa costruire un mondo abitato secondo una prospettiva femminista, un mondo che nella sua fragilità sembra reclamare di essere ereditato da qualcuna, pena la sua dimenticanza e sparizione. Ereditare quel mondo vorrebbe dire innanzi tutto prendersene cura, desiderare che non venga meno. Per tutte queste ragioni sottrarsi a una tale eredità non è sostenibile, se non vogliamo che tutto collassi dietro le spalle di chi ci ha lasciato. Ma perché mai tale collasso ci appare insostenibile? L’unica risposta possibile è se l’erede fa già parte del mondo che ora dovrebbe ereditare. Paradossalmente, ereditando l’erede eredita anche, o soprattutto, se stessa, nel momento in cui riconosce parti di sé in quel mondo che, apparentemente, le è stato lasciato.
La consapevolezza che dichiararsi erede di qualcuna (del “suo mondo”) significhi innanzi tutto ereditare se stessi – fare memoria di sé in quanto legate ad altre vite – è capace di cambiare totalmente segno a un concetto tradizionale di eredità dove prevale invece la nozione di debito, di riconoscimento, di discendenza verticale. L’eredità potrebbe essere ripensata senza il vincolo patrimoniale della trasmissione e della conservazione, senza nozioni di proprietà e possesso, in un’ottica non di dovere, ma di libertà. Non si è eredi: si sceglie di esserlo, lo si desidera. Del resto, in una breve nota che avevo scritto parecchio tempo fa in risposta a Paola Di Cori su come fare storia del femminismo per trasmetterlo alle generazioni future riflettevo come ci scontrassimo con un nodo impossibile da aggirare: il femminismo come modo di abitare il mondo non può essere trasmesso come un messaggio che si consegna a qualcuna, così come una vita femminista non è un oggetto prezioso che si possa conservare da parte di un erede. È impossibile ereditare un mondo o una vita se non si è già parte di quel mondo o di quella vita. Dichiararsi eredi, appunto, indica performativamente l’impossibilità di separare in due temporalità distinte il mondo che esisteva prima di averlo ereditato (il “passato” dove era viva Liana) da quello che possiamo dire di avere ereditato soltanto perché Liana non c’è più. I due mondi sono impossibili da separare perché il nostro coinvolgimento come eredi testimonia come la relazione con Liana abbia creato un legame di contemporaneità che non possiamo più districare. Tale legame non appartiene affatto al passato, ma si rigenera nel presente della memoria. Se ci dichiariamo eredi di Liana non è per un qualche vincolo esteriore di successione, ma per un vincolo transitivo di contemporaneità capace di tradurre l’asincronia del presente che condividevamo con Liana nell’asincronia di un presente che apparentemente non condividiamo più con lei. La traducibilità di questa asincronia apre il varco temporale che altrimenti ci dividerebbe per sempre. In questo senso rinnovato, dichiararsi eredi (diversamente dall’essere nominati eredi) non significa altro se non fare memoria di una contemporaneità inconclusa tra noi e lei. Come ho cercato di suggerire, in questo contesto fare memoria di sé è indistricabile dal fare memoria di Liana. Del resto, in quanto eredi di un “mondo”, la memoria non potrebbe limitarsi selettivamente a Liana, ma tira con sé un groviglio di relazioni, luoghi, altre persone, conversazioni, ambienti, atmosfere. Fare memoria significare connettere e riconnettere assemblaggi affettivi. Non si ricorda una persona, ma delle circostanze.
***
Gli assemblaggi temporali che caratterizzano la contiguità asincrona sono tipici della memoria, di quella particolare forma di (ri)costruzione temporale data dal processo di fare (o archiviare) memoria. Nella memoria, come sappiamo, passato e presente si archiviano a vicenda. Per questo l’archivio della memoria si ribella alla costruzione tradizionale del discorso storico, nella misura in cui l’archivio affettivo fatica a separare il passato dal presente, poiché nella memoria le due dimensioni diventano a tutti gli effetti contigue. Come il passato, sebbene assente, non è passato, così il presente non si lascia definire come tempo unico limitato alla propria presenza, ma al contrario è caratterizzato dalla capacità di estendersi in una durata variabile, abitabile da soggetti asincroni. Se il presente fosse puramente istantaneo, senza ritardi e senza asincronie, sarebbe probabilmente inabitabile. Attraverso la memoria, invece, il presente acquista una dimensione spaziale abitabile. Il presente còlto attraverso l’operazione della memoria ospita anche chi non appartiene (o si presume che non appartenga) a una medesima temporalità. Caratteristica del presente non è infatti la sua sincronizzazione, ma, al contrario, la possibilità di ospitare l’asincronia, affinché soggetti “impropri” (non sincronizzati) possano condividere uno spazio/tempo che potrebbero definire “comune”, secondo una finzione politica condivisa.
L’accento sull’asincronia della memoria è prezioso perché permette di aprire varchi tra temporalità multiple anche quando tali varchi non sembrino più praticabili: ad esempio quando la perdita di una persona amata sembrerebbe dimostrare una cesura inarrestabile tra un presente che è solo presenza e un passato che è pura assenza, quando invece queste modalità di esistenza temporali sono intimamente contigue. Tale operazione di instancabile connessione temporale avviene sia in ogni istante del presente, sia in ogni consapevole ricostruzione della nostra relazione con un passato archiviato come tale. Il presente fa continuamente memoria di sé, e non solo del passato: esso è interessato alla loro reciproca conversione e traducibilità. Sebbene il nostro rapporto con il presente e con il passato appaiano come due modalità distinte, in realtà non lo sono affatto, nel momento in cui ogni “momento dell’essere” archivia se stesso come futuro oggetto memoriale. Perciò fare memoria non è un’operazione storica, ma contraddistingue la capacità stessa di fare mondo nel presente. Il suo lavoro può essere definito come la composizione e ricomposizione di un archivio affettivo.
Collego strettamente memoria e affetto perché sono intra-agenti. Risultato della loro reciproca relazione è l’archiviazione, vale a dire quel singolare moto o impulso che definisce la memoria come eccedente rispetto a ogni misura di conservazione e trasmissione. Si fa memoria quando la conservazione dell’oggetto non è più possibile: così, la memoria entra in gioco quando un oggetto amato è assente, poiché la sua mancanza instaura la cesura necessaria a scatenare il moto di un affetto. Se non tutti gli affetti sono generati dalla percezione di una perdita, ogni perdita genera un affetto, nella misura in cui la perdita dell’oggetto sopravvive all’oggetto stesso. L’affetto propelle la memoria e ne diventa al tempo stesso l’oggetto. Si può dire in effetti che non abbiamo memoria dell’oggetto ma dell’affetto legato a esso. L’oggetto perduto è ricordato attraverso l’affetto che ne fa le veci e che testimonia non solo la sua assenza, ma anche la sua sopravvivenza. Così la presenza dell’affetto si nutre dell’assenza dell’oggetto. Con Liana, senza Liana. Affetto Liana, effetto Liana. La contiguità necessaria di presenza e assenza che è caratteristica del fare memoria non può essere tacciata di semplice malinconia, una “passione triste”. La memoria archiviante non è né triste né felice. Del resto, l’oggetto che chiamiamo assente non è solo quello il cui possesso abbiamo perduto, ma anche quello desiderato in eccesso, e quindi mai posseduto. E che cos’è (stato) il femminismo, se non questo eccesso di desiderio?
Lo stretto rapporto affettivo tra memoria e perdita, riconoscibile nell’affermazione di un eccesso di desiderio, mi sembra di ritrovarlo nello scritto di Liana intitolato “Era il nostro mondo comune”. Anche se il tempo imperfetto sembra designare la malinconia della perdita, esso è ben lungi dal dichiarare la vittoria della nostalgia, poiché serve a riattivare la memoria bruciante di un desiderio il cui nome è “mondo comune”. Archiviandolo al tempo passato Liana fa memoria di quel femminismo senza che quel femminismo esista più. Tuttavia, nel fare memoria di un mondo comune di cui sembra registrare la perdita Liana è capace di trasformarlo nuovamente, affinché l’affetto che da esso si sprigiona possa renderlo “comune” per noi soggetti asincroni, che pur non avendo mai potuto desiderare quel mondo allora, possiamo desiderarlo ora anche senza poterlo realizzare. Asincronia del femminismo: un modo per ravvivare il desiderio di un mondo comune, sebbene non più di quel mondo comune, e non con le persone con cui lo si potrebbe condividere. Come ci ricorda Liana, non si perdono solo le persone amate, ma anche i mondi amati, quelli che la memoria ci fa nuovamente chiamare “comuni”. Forse sono comuni perché sono capaci di trasmettersi come affetto, senza più l’oggetto che l’aveva scatenato. Dei mondi si perdono quotidianamente e nessuno se ne accorge, se non chi li perde. Ma Liana se ne accorge. Liana sa che possiamo perdere non solo gli oggetti un tempo posseduti, ma ancora più gli oggetti del desiderio che non abbiamo mai posseduto, e che abbiamo desiderato tanto più fortemente quanto più oltrepassavano la capacità di essere posseduti in un qui e ora. Credo che Liana riconoscesse in questa eccedenza il significato più profondo dell’utopia.
A me – che appartenevo di più alla generazione (post)-punk del No Future e a cui la parola “utopia” sapeva troppo di promesse future – a me colpiva la capacità della memoria di incarnarsi in un archivio affettivo, tale da mantenere dell’oggetto perduto (la rivoluzione femminista?) la sua traccia di virtualità residua, vitale e trasformatrice: l’impulso di un affetto che sopravvive all’oggetto. Fare memoria significa continuare a produrre quell’oggetto, senza più la speranza di poterlo recuperare, senza il desiderio di una restituzione. In questo senso, la memoria, a differenza del ricordo, non è affatto rivolta al passato e non è interessata a perpetuare o conservare il proprio oggetto. La memoria sa che può goderne soltanto deformandone lo spazio asincrono, solo ripetendone l’impulso desiderante. Tale ripetizione potrà forgiare a sua volta un altro mondo comune, e lo farà con la forza di un affetto la cui fonte non è più presente. Un altro mondo comune non potrà che essere un altro assemblaggio asincrono, un altro affetto di contemporaneità desiderante. Così mi sembra abbia fatto Liana più volte nella sua vita, perdendo mondi alle sue spalle, eppure sempre “ricordando in avanti”.
Ecco, forse, un modo per abitare, in modo imperfetto e non risolutivo, il paradosso della compresenza di assenza e presenza da cui sono partito. In quanto superstiti siamo in grado di percepire tangibilmente questa sensazione di vuoto e di pieno, un eccesso che caratterizza la nostra sopravvivenza (letteralmente, un eccesso di vita, o una vita in eccesso rispetto ad altre vite). Accogliendone il paradosso, potremmo, come spero, mantenere viva la nostra capacità di rispondere a una Liana che c’è e non c’è (come lo Stregatto), e continuare a farlo senza il beneficio di una sua risposta. Nel presente asincrono della memoria chi potrà mai dire chi tra noi e Liana domanda o risponde? Saremo con lei per sempre asincrone, e tuttavia, chissà per quanto ancora, responsabili (“capaci di risposta”) le une con l’altra, come direbbe la sua amata Haraway: a distanza di tempo, magari di lunghissimo tempo, quando non ci accorgeremo più di stare rispondendo proprio a lei. Impercettibile, forse, Liana sarà come un quanto di materia sensibile e discorsiva vibrante in una porzione dell’universo. Credo che l’idea non le dispiacerebbe.