Clotilde Barbarulli
30 aprile 2018 Letterate magazine
Angela Davis, che insegna ora nel dipartimento di Storia della coscienza dell’Università della California a Santa Cruz, balzò agli onori della cronaca per la sua detenzione in carcere, a causa del presunto collegamento con la rivolta del 7 agosto 1970, quando Jonathan Jackson e altre Pantere Nere sequestrarono il giudice Harold Haley. Dalla prigione Davis ha scritto pagine importanti della contestazione divenendo un’icona delle lotte di liberazione: scagionata con formula piena, riprende la militanza, concentrandosi sulle origini sociali e razziali di milioni di afroamerican* detenut* negli istituti penitenziari statunitensi. Ritiene infatti che il sistema penitenziario è il paradigma di come viene mascherato il razzismo all’interno di un’istituzione pubblica, dove si presentano “forme congelate di questo tipo di pregiudizio che opera in modi occulti, riconosciuti cioè di rado come razzisti”.
Con Donne, razza e classe, un libro del 1981 – che offre un approccio ai problemi basato sull’intersezione di genere, razza e classe – Angela Davis approfondisce un saggio, scritto in carcere nel 1971, sulla condizione delle afroamericane durante lo schiavismo, da un lato intendendo, come sottolinea Arruzza, sfatare il mito del matriarcato nero in base al quale le donne avrebbero beneficiato di un potere relativo, mentre subivano forme specifiche di oppressione compreso lo stupro sistematico, dall’altro mostrando la resistenza e la lotta di molte anche nel movimento abolizionista. Passa poi a ricostruire tensioni, intrecci e contraddizioni tra il movimento femminista bianco e la lotta delle donne Nere per la liberazione (l’iniziale maiuscola “simboleggia un gesto di riappropriazione e risignificazione della categoria razziale”, una pratica che va da Fanon a Lorde e così via), nodi che si ripresentano negli anni Sessanta e Settanta.
Se il termine razza è usato politicamente per “rendere visibile – spiegano i traduttori – il costrutto teorico che afferma il razzismo come rapporto strutturale di dominio”, fondamentale è l’idea che non esiste un soggetto “donna” omogeneo per cui occorre considerare – per qualsiasi movimento di liberazione – la storia e la stratificazione di esperienze e bisogni delle diverse soggettività in gioco. Nella sua analisi dello schiavismo e dei rapporti fra movimento suffragista e quello abolizionista mette sempre in rilievo figure chiave per la lotta dei diritti.
Le donne dunque erano oppresse come gli uomini per il lavoro nell’istituzione disumana della schiavitù, e anche vittime di abusi sessuali, ma non rinunciarono a varie forme di resistenza, dalla rivolta alla fuga ai sabotaggi all’acquisizione clandestina di lettura e scrittura. Per i proprietari di schiavi perciò “l’uso terroristico della violenza sessuale” aveva lo scopo di “rimettere al loro posto le donne Nere”. Se in generale poi con il suffragismo si denuncia l’oppressione della donna bianca di classe media, si ignora però – come nel caso di Seneca Falls (1848) – il dramma delle bianche di classe operaia e delle Nere. E tuttavia gli esempi più sorprendenti di “solidale sorellanza” tra donne bianche e Nere riguardano “la storica lotta del popolo Nero per l’istruzione”, in particolare nel sud, negli anni successivi alla Guerra civile. L’ultimo decennio del diciannovesimo secolo è invece un momento chiave nello sviluppo del razzismo odierno, sia per il sostegno istituzionale che per le giustificazioni teoriche che attraversarono anche le suffragiste, ad esempio nel congresso del 1890.
Col nuovo secolo “il suprematismo bianco e il maschilismo, che si erano sempre corteggiati, si abbracciarono alla luce del sole e consolidarono la propria relazione”, mentre la National American Woman Suffrage Association in seguito alla scelta tattica di aprire la strada al razzismo – al fine di ottenere il voto – si trovò sempre più invischiata in forme di discriminazione.
Le lavoratrici cominciarono a rivendicare il diritto di voto come arma supplementare per avanzare nella lotta di classe. Principale fautore del marxismo, il Socialist Party, nato nel 1900, sostenne la battaglia per l’uguaglianza delle donne, e vi parteciparono anche molte Nere, da Claudia Jones a Anita Whitney. Infine, indagando la storia della lotta per l’aborto, Davis cerca di spiegare le diffidenze delle Nere dovuta a vari fattori fra cui le numerose sterilizzazioni forzate, spesso misconosciute, condotte dal governo americano contro le minoranze: solo nel 1973 “si aprì il vaso di Pandora” per il caso clamoroso di due minorenni in Alabama e vennero alla luce numerosi casi simili, facendo emergere così la necessità inderogabile, in tutti i campi, di una intersezione fra sessismo, razzismo e classe.
Negli USA l’uso della falsa accusa di violenza, evocata col mito dello stupratore Nero, è stato, nota Davis, uno degli strumenti più terribili forgiati dal razzismo. Ma, dopo anni di silenzio, scrive, sta emergendo come “emblema delle disfunzioni della società capitalista contemporanea”. L’attuale epidemia di stupri avviene in un momento in cui la classe capitalista sta violentemente riaffermando la propria autorità di fronte alla crisi e alle contestazioni.
In alcune manifestazioni pubbliche Davis ha considerato l’elezione di Donald Trump come l’espressione più didascalica delle radici costitutive degli Stati Uniti, vale a dire il razzismo, l’imperialismo e il capitalismo. Ma, così come accade in tutte le fasi di repressione, è possibile riaprire degli spazi di discussione e di opposizione.
Ed è questo sguardo che bisogna tenere presente in particolare, ricordando come in una intervista abbia raccontato che, al tempo del libro, si teneva a distanza, come molte donne di colore, dalle femministe “bianche borghesi”: esistono però diversi femminismi e Davis si riconosce – afferma anche in La libertà è una lotta costante – in un femminismo che implichi una coscienza del capitalismo, del razzismo, del colonialismo, e di “una quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare”, un femminismo quindi che, in una cornice socialista e radicale, colleghi le lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti-razziste e anti-omofobiche. Non si può più fare affidamento, riflette giustamente, sull’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere, ma solo se costruita intorno a progetti politici. Per Butler è tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee chiare sull’uguaglianza, l’economia, la libertà, la giustizia.
Il movimento de* sex worker, che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi, sembra a Davis un buon modello di possibile alleanza con l’attivismo di sinistra. Il femminismo radicale così auspicato è anticapitalista, antirazzista e antifascista, e si ridefinisce in base al contesto socioculturale unendo a sé più fronti di resistenza. Perciò questo libro può contribuire alla considerazione di un tale femminismo – quando riconosce le forme specifiche di storia, resistenza, rivendicazioni, bisogni e desideri di tutte le differenti soggettività – come una “forza di trasformazione sociale e politica all’altezza della crisi che stiamo attraversando” (Arruzza), una crisi culturale, economica, sociale, politica e ambientale.
Intervista di Siobhan Brooks a Angela Davis, Zeroviolenza on line.
Angela Davis, Donne, razza e classe, Prefazione di Cinzia Arruzza, traduzione di Marie Moïse e Alberto Prunetti, Roma, Alegre 2018
Angela Davis, La libertà è una lotta costante. Ferguson, la Palestina e le basi per un movimento, Ponte alla Grazie 2018
Angela Davis, Aboliamo le prigioni?, Minimumfax, 2009.
Judith Butler, “Dare forma alla radicalità del conflitto”, Il Manifesto 1 luglio 2017.