Il Giardino dei Ciliegi
in collaborazione con la Società Italiana delle Letterate
Firenze, 8-10 dicembre 2017
Fare mondo: poetica del futuro dimenticato
La poesia ha la capacità… di ricordarci qualcosa che ci è proibito vedere. Un futuro proibito: un luogo ancora non creato la cui architettura morale si fonda non sul possesso e lo spossesso, sulla soggezione delle donne, … ma sulla continua ridefinizione della libertà – parola ora tenuta ai domiciliari dalla retorica del “libero” mercato. Questo futuro attuale, cancellato continuamente, è ancora visibile. In tutto il mondo stanno riscoprendo e reinventando i suoi percorsi….
(Adrienne Rich, 2006)
Importa quali storie facciano mondi, quali mondi facciano storie.
(Donna Haraway, 2011)
La scrittura delle donne offre infiniti esempi di affabulazione speculativa sul presente-passato-futuro, intrecciati in una miriade di incomplete configurazioni di luoghi, tempi, materia e significato; e di questi ci interessano particolarmente esempi del qui-ed-ora e delle connessioni tra il possibile e il reale. Ci interessa inoltre come esempi di negatività e di perdita si traducano nell’invenzione creativa del sé, e in pratiche politiche – resistenti, riluttanti, oppositive, alternative, effimere, o altro. Ogni donna costruisce una vita che è metafora centrale del suo modo di pensare il mondo. Le composizioni che creiamo in questi tempi di cambiamento sono ricche di messaggi incrociati del nostro impegno e delle nostre scelte. Fare mondo è un negoziato difficile senza esiti certi, ma il nostro quotidiano ne è narrazione e performance perché fare mondo è fare mondo. E poiché “il presente va conosciuto in relazione a mappe temporali e spaziali alternative che provengono da una percezione di mondi affettivi passati e futuri” (J. Muñoz), troviamo una prima ispirazione programmatica in questo passato non del tutto dimenticato:
La Storia racconta che in tempi lontani gli uomini cacciavano i mammuth mentre le donne seminavano, piantavano, raccoglievano; ma ha dimenticato, come invece ricordano Ursula Le Guin, e ora Donna Haraway, che per portare le cose le donne si sono inventate una sporta — zucca, conchiglia, rete, sacco, o altro – che è servita per raccontare una storia non narrata, non eroica, piena di gente qualunque, di perdite, di trasformazioni: un futuro condiviso nel nostro fare mondo.
Per questo convegno, dunque, accanto a possibili riflessioni politiche e speculazioni ecologiche, ci interessa vedere come la scrittura abbia dato forma alla materialità del vivere e a visioni oppositive o alternative che includono il lessico delle emozioni; come le scrittrici abbiano affrontato subalternità e normatività, disaffezione e disidentificazione nei futuri possibili o fuori norma di romanzi, fiction, poesia. La libertà del fuori pista e del non previsto può fare paura, ma dove il respiro si allarga pullulano le opzioni. Ci autorizzano a immaginare, a indagare convenzioni e discorsi, a riconoscere nei frattali dei linguaggi un ancoraggio delle infinite differenze che nutrono i processi micropolitici di cambiamento e trasformazione. E fanno emergere il processo poetico di come viviamo il mondo di cui siamo parte permeabile, inevitabilmente implicata nell’Antropocene, e dove perciò restiamo vigili a cercare di impedire iniquità, sfruttamento, spossessamento e distruzione.
Sappiamo che “fare mondo” può essere immediatamente tradotto in “worlding” o “mondializzazione”, o altro, ma desideriamo lasciare agli interventi e alla discussione l’uso delle possibili stratificazioni di un termine che descrive un divenire incessante. Con questa piccola traccia:
Se nel colonialismo il fare mondo di chi detiene il potere, l’Occidente, ha significato mettere a margine e spossessare l’altra/l’altro in quanto oggetto da analizzare, da rappresentare e da controllare (Gayatri Spivak), nel postcolonialismo questo condizionamento persiste in varie forme insieme alla pratica di criticare il processo storico-culturale subìto e in formazione, come hanno denunciato tante scrittrici (Anita Desai, Bharati Mukherjee, Arundhati Roy, Anita Nair, Nadine Gordimer, Kiran Desai, Bessie Head, Fatou Diome, Jamaica Kincaid…). Possiamo chiedere con Chandra Mohanty, “Chi produce il sapere attorno alle popolazioni colonizzate e da quale luogo/posizione?”, invitando a considerare l’internazionalizzazione delle economie e della forza lavoro. Così le “femministe del Terzo Mondo” sostengono la necessità di ri-scrivere la Storia a partire dai contesti specifici e dalle strategie di resistenza, per fare mondo in modo diverso. E anche Sara Ahmed ci chiede “Se a causa dell’ineguaglianza e l’ingiustizia del mondo diventiamo femministe, allora che tipo di mondo stiamo costruendo?”
Ricordiamo la frase di Arundhaty Roy: “Un altro mondo non solo è possibile, è sulla via. In un giorno silenzioso, posso sentirlo respirare”, ma non possiamo non accompagnarla a una osservazione di Isabelle Stengers, che sì, nel nostro mondo destinato alla barbarie di un irresponsabile capitalismo un altro mondo è possibile, ma solo se ci opponiamo a chi autorizza lo sfruttamento delle risorse vitali. Mentre Donna Haraway, pensando a questa nostra terra piena di rifugiati senza rifugio, spera che tutt* collaborino a preservare assemblaggi multispecie che includono gli umani per un’epoca che forse si chiamerà Chthulucene – passata, presente e a venire.
Cerchiamo tracce di assemblaggi intersezionali, di codici, linguaggi, immagini e corpi intrecciati a comporre una poetica del futuro dimenticato: concetti, affetti, desideri, storie, riletture, incompletezze… Se parlarne vi interessa, se volete partecipare al convegno, scriveteci!
Clotilde Barbarulli, barbarulli@tiscali.it
Liana Borghi, liborg@cosmos.it
www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it