di Renzo Carriero e Lorenzo Todesco (Carocci editore 2016)
Per una coincidenza casuale, sulla copertina del supplemento settimanale (femminile) del Corriere della Sera del 22 ottobre compare il termine “madri indaffarate”, seguito dall’affermazione “e i padri si godono il tempo più divertente dei figli”. L’articolo poi insiste su questa dicotomia: “il lavoro pesante tocca sempre alla madre” mentre un bambino dice “io gioco con papà e mi diverto un sacco”. Non credo che l’autrice dell’articolo abbia letto il libro di cui stiamo parlando, ma l’argomento è sostanzialmente il medesimo e analoga la realtà di cui si parla.
Il libro è di ben altro livello, ma non è un testo destinato all’accademia. E’ destinato a un pubblico non solo specialistico, a chi “per ragioni professionali o per semplice curiosità personale è interessato a farsi un’idea sulle diverse questioni che ruotano attorno al lavoro familiare”. Per questo l’appendice metodologica è on line e tabelle e figure contenute nel testo sono leggibili anche per chi non ha fatto esami di statistica.
Siamo di fronte a un tema che richiede prima di tutto di essere definito: gli autori, dopo una ricognizione sulle definizioni adottate nel dibattito, avviato soprattutto da studiose di orientamento femminista, scelgono di distinguere prima di tutto il lavoro domestico da quello di cura. Il primo può essere ulteriormente articolato, in base al suo carattere routinario o occasionale. Anche il lavoro domestico routinario comprende attività diverse, come cucinare oppure pulire la casa, mentre il lavoro di cura, che non ha soltanto i figli come destinatari, include attività ludiche e attività di cura in senso stretto. Dalle definizioni date dai primi testi femministi, si discostano su un punto non secondario: anche il lavoro familiare è “produttivo” (e non solo riproduttivo) e se non si calcola nel Pil è solo per la difficoltà di quantificarne il valore monetario
Le fonti sono principalmente le indagini Istat sull’uso del tempo (sono disponibili i dati relativi al 1988-89, 2002-03, 2008-09, mentre non sono disponibili quelli dell’indagine relativa al 2013-14), alcune rilevazioni internazionali che consentono comparazioni interessanti, oltre a due ricerche condotte dagli autori in ambito regionale. Abbastanza ovvia la difficoltà di incrociare dati di origine diversa: gli autori sono assolutamente consapevoli di questo e danno conto sempre delle metodologie adottate.
Tutta la prima parte del libro conferma quanto già sappiamo, non solo dalle ricerche precedenti, ma dalla semplice osservazione di quanto accade intorno a noi: le donne in Italia svolgono una quantità di lavoro familiare nettamente superiore agli uomini. La sproporzione è maggiore per quanto riguarda il lavoro domestico, mentre una ripartizione meno squilibrata sembra esserci oggi nel lavoro di cura, soprattutto per quanto riguarda le attività ludiche con i figli, che infatti “giocano con papà e si divertono un sacco”, frase anch’erra in bell’evidenza sulla copertina del settimanale citato.
Di grande interesse capire che cosa accade nelle diverse fasi della vita. Mancando dati provenienti da indagini longitudinali, gli autori hanno classificato gli individui a seconda della fase in cui si trovavano al momento dell’intervista sull’uso del tempo, isolando il lavoro domestico. Quello che emerge non è soltanto il maggior impegno delle donne in qualunque situazione, ma il fatto che, mentre questo impegno aumenta nettamente nella condizione di coppia, quello degli uomini in coppia diminuisce rispetto a quello dei single.
Uno dei risultati della prima indagine Istat, apparentemente allora inatteso, era che una donna con figli e marito lavora di più in casa di una che ha soltanto i figli. Questo risultato viene qui ampiamente confermato, con alcuni ulteriori elementi: l’impegno degli uomini in coppia non cambia di molto con il numero o l’età dei figli, mentre quello delle donne aumenta con l’età di essi.
Non desta sorpresa il fatto che anche quando una donna lavora fuori casa, il suo impegno in casa diminuisce di poco e resta comunque maggiore di quello del marito.
Certo, nel tempo (fra le due indagini Istat) il comportamento ha subito variazioni interessanti: è diminuito il tempo complessivo dedicato dalle donne al lavoro familiare ed è aumentato quello degli uomini, ma è diminuito anche il tempo complessivo. Sono in effetti cambiate le abitudini, gli “strumenti” che consentono di ridurre questo tempo. Sono cambiati, forse anche gli standard relativi alla preparazione dei cibi o alla pulizia della casa.
Su questi gli autori affermano che per ora ci si deve limitare a speculare, e non può essere che così. Ma è un aspetto di grande importanza. In fondo, se nella coppia si raggiunge un accordo sulla ripartizione percentuale del tempo dedicato al lavoro familiare, prima di tutto bisogna accordarsi sul 100, cioè sul tempo complessivo riconosciuto necessario da entrambi.
La parte più nuova del libro (almeno rispetto a quanto già acquisito dalle analisi sulla realtà), è quella in cui si affronta il tema della “soddisfazione” con cui questa divisione viene vissuta da uomini e donne.
Gli autori infatti, dopo aver ampiamente documentato il forte divario di genere nella divisione del lavoro familiare (divario che in Italia è molto più forte che in altri Paesi con cui è possibile una comparazione) provano a spiegarlo, usando di volta in volta le diverse teorie a confronto con i dati disponibili. Non è una questione di denaro, che porterebbe la donna, che non percepisce reddito, o che guadagna di meno, a compensare questa condizione con un di più di lavoro familiare, soprattutto domestico. Anche le poche donne che contribuiscono al reddito familiare più del marito, lavorano in casa ben più di lui.
Come spiegazione appaiono più convincenti gli atteggiamenti rispetto ai ruoli di genere, però anche le donne che rivendicano una situazione egualitaria continuano a impegnarsi più del marito.
Si arriva così al nodo affrontato dagli autori: la divisione del lavoro familiare viene percepita come equa anche quando si presenta come quantitativamente squilibrata.
Questa “equità percepita” è oggetto di studio da tempo. Anche in questo caso al riepilogo delle teorie e delle ricerche precedenti, segue l’illustrazione dei risultati delle due ricerche condotte in Piemonte, a carattere più limitato, ma con un maggior livello di profondità. Qui troviamo la ragione del titolo: per le donne la soddisfazione aumenta se il lavoro domestico si riduce, ma non in maniera molto rilevante. Anche coloro che svolgono la maggior parte di tale lavoro (cioè tutte…) si dichiarano soddisfatte.
Gli uomini invece sono più soddisfatti se lavorano di più (perché si sentono più bravi? Dei propri padri? Degli altri uomini?). E’ importante infatti anche capire a quali modelli si fa riferimento, con chi ci si confronta: con i propri genitori, con amici e amiche, con l’italiano e l’italiana media. In estrema sintesi “il contributo domestico delle donne è considerato scontato, mentre quello degli uomini no”.
Conta, ovviamente, anche il contesto, quello istituzionale (i servizi, le norme sui congedi ecc.) e quello culturale, in primo luogo in Italia il peso della tradizione religiosa.
Nell’ultima parte del libro si sposta l’attenzione dalle cause della divisione del lavoro familiare alle sue possibili conseguenze sul benessere psichico di uomini e donne. Sia pure con i limiti delle ricerche, limiti correttamente sottolineati dagli autori, si può affermare che a incidere sulle condizioni di stress non sia tanto la quantità del lavoro svolto, né la divisione di esso, ma la soddisfazione, legata alla “equità percepita”.
Quindi siamo di fronte a un libro interessante, complesso, ma divulgativo (e questo è un grande merito) un libro da studiare quindi, ma anche solo da leggere, ricco di stimoli suscettibile di sviluppi ulteriori.
Una nota in particolare: nel capitolo conclusivo gli autori si chiedono “dove sono i nuovi padri” concludendo che “sfortunatamente per le donne italiane questi ‘nuovi padri’ non sono diventati ‘nuovi mariti’”.
A questo punto viene naturale ritornare all’articolo del supplemento del Corriere della Sera: di fronte alla constatazione che la collaborazione in famiglia aumenta, ma vede gli uomini prendersi i compiti più facili e divertenti, la giornalista si chiede se “dobbiamo arrabbiarci”. E la risposta è negativa. Senza mettere minimamente in discussione la scarsa partecipazione al lavoro domestico di routine, l’articolo si concentra sulle attività di cura dei figli e afferma che non si devono “confinare i maschi al cambio del pannolino o alla pappa”, perché essi sono invece “essenziali … nei campi da gioco e nei parchi cittadini”.
Evidentemente del contesto culturale che incide sulla divisione del lavoro familiare fanno parte i media, il cui ruolo potrebbe essere oggetto di ulteriori indagini.
Anna Picciolini